L’Ecowas medita intervento militare in Costa d’Avorio contro Gbagbo

Il 17 gennaio si riuniscono a Bamako, capitale del Mali, i capi degli stati maggiori dei paesi dell'Ecowas, la Comunità degli stati dell'Africa occidentale alla quale appartiene anche la Costa d'Avorio, per discutere gli aspetti operativi dell'opzione militare contro Laurent Gbagbo che nonostante abbia perso le elezioni contro Alassane Outtara, non vuole cedere il potere

Bluff concepito per ammorbidire Laurent Gbagbo, incollato alla poltrona presidenziale come più non si potrebbe, oppure ipotesi teorica destinata fatalmente a tradursi in realtà? Sull’intervento militare africano con nulla osta internazionale per rimuovere il capo di Stato uscente della Costa d’Avorio e insediare l’uomo che secondo la Commissione elettorale, l’Onu, l’Unione Africana e l’Unione Europea avrebbe vinto le elezioni presidenziali del 31 ottobre scorso, Alassane Ouattara, ne sapremo di più la sera del 17 gennaio. Quel giorno si riuniscono a Bamako, capitale del Mali, per discutere gli aspetti operativi dell’opzione militare i capi degli stati maggiori dei paesi dell’Ecowas, la Comunità degli stati dell’Africa occidentale alla quale appartiene anche la Costa d’Avorio, che ha minacciato l’intervento a più riprese dopo il rifiuto del presidente di riconoscere i risultati del voto.

A rendere più probabile l’invio di una spedizione sono soprattutto due aspetti:
la scarsa incidenza delle sanzioni economiche e diplomatiche decise contro Gbagbo e i suoi partigiani e l’influenza perniciosa sul quadro politico africano complessivo che l’inflessibilità della posizione di Gbagbo presenta ogni giorno di più. La strategia della strangolamento finanziario non ha finora sortito risultati e difficilmente li sortirà. Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale, Banca africana per lo sviluppo hanno sospeso i versamenti al governo ivoriano ma questo a sua volta ha sospeso il pagamento degli interessi sul debito a banche private ed enti multilaterali, e sta studiando la situazione della Pubblica amministrazione per sospendere gli stipendi dei dipendenti partigiani di Ouattara (concentrati nel nord del paese) e mantenere quelli ai sostenitori di Gbagbo.

Il quale può a ragione sperare di continuare a introitare la valuta dell’esportazione del cacao
(i cui corsi sono ai massimi storici e rappresenta il primo prodotto del paese) e minacciare di trasformare la parte di Costa d’Avorio controllata dalle forze a lui fedeli in piattaforma girevole dei traffici di armi, droga e diamanti di contrabbando nella regione, come è già accaduto negli anni Novanta nel caso di paesi come Liberia e Sierra Leone. Qui si innesta la seconda ragione delle probabilità in rialzo di un intervento militare dell’Ecowas con benedizione internazionale: la creazione di un’area di instabilità e di economia di guerra nella regione rappresenterebbe una minaccia per tutti gli stati vicini, che già hanno a che fare con guerriglie di bassa intensità (è il caso del Senegal alle prese coi separatisti della Casamance, il Mali e il Niger con Al Qaeda e i ribelli tuareg, la Nigeria col Mend nel delta del fiume Niger e con gli estremisti musulmani di Boko Haram nel nord).

Così come politicamente deleteria per gli equilibri africani appare l’intransigenza di Gbagbo,
che ha rifiutato ripetutamente proposte centrate sull’idea del governo di unità nazionale dove a lui o a personalità da lui indicate sarebbe stata affidata la carica di primo ministro. Due guerre civili sono state evitate negli ultimi anni – nello Zimbabwe e in Kenya – con soluzioni di compromesso che hanno visto la spartizione del potere fra i contendenti all’indomani di risultati elettorali contestati. Rifiutando il compromesso Gbagbo si condanna all’isolamento e attira su di sé la soluzione di forza. Che costituirebbe certamente una sciagura: un intervento militare dell’Ecowas potrebbe essere guidato e finanziato soltanto dalla Nigeria, che è la superpotenza regionale. Ma tutti gli interventi a guida nigeriana degli ultimi vent’anni, dalla Liberia alla Sierra Leone, hanno prodotto solo anarchia, devastazione, perdite umane e saccheggi di beni e risorse. L’accorato appello al dialogo lanciato dai vescovi cattolici ivoriani è motivato anche da queste memorie.

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