Le prime parole di chi rinasce sotto la neve e le macerie

Quali parole direbbe un uomo che nascesse oggi da ventre di donna con coscienza adulta? Le stesse dei sopravvissuti di Rigopiano: sono io, sono qui, questo è il mio nome, grazie

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

«Il momento peggiore – racconta Giorgia – è stato il secondo giorno lì sotto. Eravamo chiusi in una scatola, senza la cognizione del tempo. Non sentivamo rumori da fuori. Continuavamo a dissetarci succhiando ghiaccio, ma non mangiavamo, e le forze e le speranze cominciavano a venire meno. Vincenzo però ci incitava e alla fine ci ha costretti a resistere fino a quando sono arrivati i soccorsi. Allora abbiamo cominciato a bussare sul soffitto a più non posso. Loro ci hanno chiamati. Io subito ho urlato “sono Giorgia e sono viva”. Ed è stata la cosa più bella che abbia mai detto» (La Repubblica, 22.1.17).

Sono parole come queste o immagini come quella del bambino estratto dalle tenebre della terra dai vigili del fuoco che ci fanno gridare al «miracolo», espressione troppo spesso abusata eppure esatta per definire il nostro sconcerto di fronte ad un positivo immeritato e inspiegabile. Pierluigi Battista ha scritto sul Corriere della Sera un editoriale straordinario sull’«emozione fortissima» che i video dei sopravvissuti dell’hotel Rigopiano suscitano in noi vivi ogni qual volta, in mezzo a situazioni di straziante dolore, uno di loro è stato sottratto al buio bianco della neve e «riportato alla luce».

Non è stato solo un salvataggio, è stata una nascita. «È la ri-nascita, è il grande rito di qualcosa che viene alla vita un’altra volta, e che batte la morte, umiliandola addirittura. È la nascita, il grande, terribile, sconvolgente spettacolo della nascita». Questo è un miracolo: l’essere nuovo di ogni cosa.

E le parole di Giorgia, nella loro eternità essenziale, sono la risposta a chi si chieda cosa potrebbe dire un uomo che nascesse da ventre di donna provvisto di coscienza adulta: sono io e sono qui, questo è il mio nome, non c’ero, ora ci sono, grazie. La caratteristica fondamentale del nostro esserci – cioè del nostro “essere in vita” – è un sofferto grido di gratitudine.

Foto Ansa

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