LE BUGIE SULLE DONNE HANNO LE GAMBE CORTE

TRUCCHI E RAGIONAMENTI CAPZIOSI PER CONVINCERE GLI ELETTORI A QUATTRO "Sì" AL REFERENDUM SULLA FECONDAZIONE ASSISTITA. UNA FEMMINISTA STORICA LI SVELA E LI CONTROBATTE

“La legge 40 è contro le donne”. La propaganda per il sì al referendum propone ossessivamente questo assioma, tra forzature, menzogne e contraddizioni. Proviamo a esaminarne alcune. La prima forzatura ideologica, forse la più subdola, è quella di insinuare che la linea di divisione passi tra chi difende le donne e chi difende l’embrione. I due soggetti avrebbero interessi contrapposti e irriducibili: stabilire la tutela della vita umana fin dal concepimento sarebbe nient’altro che un attacco alla libertà femminile, così faticosamente conquistata.
Le donne, secondo chi sostiene questa tesi, sarebbero indifferenti alla vita degli embrioni in nome di quella di un altro embrione, l’unico destinato a crescere e a diventare un bambino. Ma è ammissibile che il desiderio di un figlio si realizzi “contro” altri possibili figli? Da sempre la maternità è tutela amorosa della vita del concepito; l’essenza della relazione materna è nella cura unilaterale di ciò che è piccolo, muto, indifeso, una cura garantita, all’inizio, dall’ovattata e naturale protezione del grembo materno. Circondare di cautele la manipolazione dell’embrione, proteggerne la fragile esistenza, non può che essere il primo pensiero di una donna che vuole diventare madre, soprattutto quando una parte del percorso procreativo si deve compiere fuori dal corpo materno, in mani estranee. Che l’articolo 1 della legge tuteli anche la vita del concepito è una garanzia in più per la donna, e non un attentato ai suoi diritti.

LA TENTAZIONE DEL FIGLIO SU MISURA
A questa mistificazione ne segue un’altra, che per tutelare la vita dell’embrione la legge metta a rischio la salute femminile. Il limite massimo di tre embrioni esporrebbe le donne alla ripetizione dei cicli di stimolazione ormonale. Ma anche altre legislazioni (per esempio quella spagnola) hanno imposto il numero massimo di tre, per evitare le gravidanze plurigemellari; inoltre la pratica medica più rispettosa è ormai orientata verso la produzione e l’impianto di pochissimi embrioni (addirittura uno solo) perché è noto che più si cerca di produrne un numero alto, più i bombardamenti ormonali diventano pesanti e dannosi. Risulta poi offensiva, e vagamente surreale, l’idea che la donna possa essere costretta a viva forza all’impianto anche se per qualche motivo lo rifiuta: non solo le linee guida della legge specificano che nessun atto invasivo è ammesso senza il consenso dell’interessata, ma sarebbero in gioco, in questo caso, diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione. Per coinvolgere le donne, i referendari presentano la battaglia per il “sì” come un’estensione del concetto di libera scelta, introdotto dalle lotte femministe degli anni Settanta. Ma quello slogan puntava sulla possibilità di scegliere se e quando essere madri, e non, come rischia di avvenire oggi, di chi essere madri. Non si tratta, stavolta, di un ampliamento della libertà della donna, ma di un’ambigua forma di potere su un altro individuo, il figlio. Una larga parte del femminismo internazionale sostiene che il lessico della libera scelta sia stato scippato alle donne dal marketing della tecnoriproduzione e da chi politicamente lo sponsorizza, diventando inutilizzabile: dietro quella terminologia ormai si nasconderebbe un obiettivo ben diverso, la selezione genetica.
La diagnosi pre-impianto è, almeno allo stato attuale, inaffidabile e pericolosa, sia per la donna che per l’embrione. Da qui, però, passa ogni illusione e desiderio di perfezione. Al momento le tecniche permettono l’individuazione (incerta) di poche malattie, ma è chiaro che, man mano che le opzioni si moltiplicheranno, quasi nessuno resisterà all’offerta di programmare il figlio. Che sarà il più possibile bello e sano, ma comunque su misura: una coppia sordomuta, per esempio, ha voluto e ottenuto un figlio sordomuto, e più volte sono stati fatti nascere bambini con particolari caratteristiche di compatibilità genetica, per donare organi a fratellini malati.
La possibilità di intervenire sulla qualità del figlio mette in moto un potente automatismo, assai difficile da arrestare una volta avviato: già oggi ha scatenato speranze e appetiti mai visti, tanto che una cattolica come l’avvocatessa Giulia Bongiorno si è schierata con veemenza per il sì, dichiarando di voler evitare a un eventuale figlio l’intolleranza al glutine. La Bongiorno insomma sarebbe disposta a buttare nel secchio una certa quantità di embrioni, allo scopo di permettere al figlio di mangiare pane e pizza, cosa che lei non può fare. Per adesso il suo desiderio è irrealizzabile, ma domani? Meglio pensarci in tempo, e abrogare.

SE LA MADRE NON è PIù MADRE
Un figlio, però, non sarà mai perfetto, non coinciderà mai con il bambino immaginario che ogni donna, durante la gravidanza, costruisce nel proprio inconscio. Eppure, la maternità è tutta qui, nella capacità di rinunciare al fantasma del bimbo perfetto per accogliere amorosamente quello reale, con tutti i suoi limiti. Ognuno di noi chiude in sé il bisogno struggente di essere amato per quello che è, con difetti e mancanze. L’amore materno è la risposta che più si avvicina a questo desiderio profondo, è, da sempre, il luogo dell’accettazione incondizionata: cosa ne sarà delle relazioni umane, se anche questo spazio rassicurante e protetto viene snaturato? Noi donne vogliamo davvero modificare a tal punto il senso del rapporto tra madre e figlio?
Questi interrogativi, nella campagna del “sì”, non trovano spazio. La scienza, la tecnologia, la medicina, sembra non comportino alcun rischio, e siano esclusivamente al servizio della donna. Inutile, quindi, mettere qualche paletto a pratiche così delicate e invasive, per esempio imponendo l’accertamento di infertilità, e la gradualità nelle terapie. I referendari sono sicuri che nessun medico vorrà speculare sul desiderio delle donne di avere un figlio, e adotterà spontaneamente quelle stesse cautele che oggi sono previste per legge.
Qui andrebbe chiarito un altro equivoco: la procreazione assistita, che peraltro ha tuttora un indice bassissimo di successo, non è una terapia dell’infertilità. L’infertilità nel mondo occidentale continua ad aumentare, e si trasmette da una generazione all’altra per cause non sufficientemente indagate, senza che si cerchino veri rimedi. Si può davvero risolvere tutto con la provetta? La fecondazione in vitro deve diventare una pratica di massa, l’unica risposta che la ricerca scientifica e la medicina sanno dare alle coppie che non riescono ad avere figli?

ETEROLOGA: DESTRUTTURARE LA FAMIGLIA
Sull’ultimo quesito, quello che riguarda la fecondazione eterologa, le forzature ideologiche si sprecano. Nessun sostenitore del sì sembra volersi domandare perché le nazioni che l’hanno già sperimentata, come la Svezia e l’Inghilterra, stiano tornando indietro. La verità è che destrutturare la famiglia tradizionale non è semplice come appare. Le resistenze sono fortissime, perché spesso inconsapevoli, radicate nella storia dell’uomo, nella sua psiche, nel suo corpo, nel suo cuore. In Svezia si è visto che tra le coppie che avevano praticato l’eterologa, la percentuale di divorzi e separazioni era raddoppiata; in Inghilterra si è visto che i figli dell’eterologa cercavano ostinatamente di risalire al genitore biologico. Questa pratica alimenta, illegalmente o no, un mercato internazionale di “donatori” (secondo l’ipocrita terminologia adottata) destinato ad estendersi. Così si ricorre a una donatrice di ovociti rumena, una banca dello sperma americana, un utero in affitto da qualche paese nordeuropeo, tutto a prezzi concorrenziali. De Filippo, adoperando teatralmente la retorica napoletana del sentimento materno, faceva dire a Filumena Marturano che i figli sono “piezz’ ‘e core”. Forse, invece, finiremo per considerarli come pezzi di un puzzle biologico da combinare a nostro piacimento. Se devo scegliere, preferisco ancora il vecchio Eduardo.

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