Lavorare stanca

Simplicissimus

“Finì de travaglià lu sulfatàri…”. La vecchia canzone era più onesta di un recente dibattito sul lavoro: se il lavoro negli Usa sia davvero più divertente (fun) che in Italia (comunque dai centomila dollari in su). Quando sento “divertente!”, nove volte su dieci avverto la pelle d’oca, come se abitassi a Belgrado e udissi i bombardieri. Oggi al lavoro non è più associato il vecchio “sudore della fronte”: lo è la morte. Il sulfatàri almeno non millantava “divertimento”: invece la cultura attuale del lavoro, che divide la vita in sfere reciprocamente esclusive – l’infanzia, l’adolescenza lunghissima come sfera di illusioni amorose, l’età del lavoro sempre più precario anche nel successo, l’uscita dai ranghi – ha la morte – non la buona, ma la melanconica morte – come senso non solo finale ma iniziale. Oggi il nesso del capitalismo – nel suo “divertimento” depressivo-maniacale – con la morte è più stretto di un tempo, tanto in guerra quanto in psiche. Si nascondono verità semplici sul lavoro: che è lavoro anche la vita quotidiana del bambino (non gioca neppure quando gioca); che è lavoro anche l’amore, senza di che tutti Giuliette e Romei, che se finiscono nella morte è solo perché ne sono partiti; che il pensiero è lavoro.

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