Lasciate stare l’Euromaidan e Putin: l’Ucraina ha dimostrato di appartenere ancora una volta agli oligarchi

Il nuovo presidente Poroshenko ha stravinto le elezioni e con i suoi compagni milionari ha tutte le carte in regola per ridare tranquillità al paese. Senza rompere con la Russia

Ma quale Rivoluzione arancione, ma quale Euromaidan, ma quale Unione Euroasiatica di Putin, ma quale repubblica popolare di Donetsk: l’Ucraina appartiene agli oligarchi, oggi come ieri e ancora per parecchio tempo. L’ha messo in chiaro quel 60 per cento di elettori ucraini che domenica ha voluto o potuto recarsi alle urne e ha consegnato i poteri presidenziali a Petro Poroshenko, eletto al primo turno col 54 per cento dei voti.

Il nuovo capo dello Stato ha trionfato facendo campagna sotto lo slogan “Vivi in un modo nuovo!”. Lui, parlamentare già da sedici anni e ministro sia nel governo “arancione” del filo-occidentale Yuschenko che in quello del filo-russo Yanukovich. Lui, re del cioccolato, della tivù, dei cantieri navali e delle fabbriche automobilistiche grazie alle privatizzazioni-svendita dei primi anni dell’Ucraina indipendente, che gli hanno permesso di diventare un uomo da 1,3 miliardi di dollari.
Ma l’hanno messo in chiaro anche Igor Kolomoysky e Sergey Taruta, rispettivamente proprietario della più grande banca del paese e industriale minerario da 2,7 miliardi di dollari, da due mesi governatori il primo di Dnepropetrovsk e il secondo di Donetsk, i quali stanno riportando l’ordine usando le loro ingenti risorse finanziarie per lusingare o intimidire i secessionisti, e Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco di Ucraina con 11,6 miliardi di dollari, che dopo lunghi silenzi attendisti si è schierato dalla parte del governo di Kiev e oggi manda i suoi operai per le strade del Donbass a riportare l’ordine.

Al nume storico della Rivoluzione arancione alla quale Euromaidan idealmente è collegata e al candidato degli ultranazionalisti che dopo i fasti invernali degli scontri di piazza nella capitale oggi inviano volontari a menare le mani nell’Est del paese gli elettori hanno riservato le briciole: Yulia Tymoshenko, due volte primo ministro, eroina della piazza nel 2004, prigioniero politico per due anni e mezzo e signora del gas arricchitasi negli anni del suo governo con un contratto con Gazprom, non è andata oltre il 13,1 per cento; Oleg Lyashko, nonostante il cruento annuncio alla vigilia del voto che i suoi uomini avevano abbattuto uno dei principali leader secessionisti nell’Est, si è fermato all’8,5 per cento. Invano la Tymoshenko ha cercato di gettare cattiva luce sulla stella nascente del panorama politico europeo. Invano ha denunciato un fatto vero e inoppugnabile: alla fine di marzo Poroshenko si è incontrato con Vitali Klitschko a Vienna, ospiti entrambi di Dmitro Firtach, il più filo-russo degli oligarchi ucraini.

Firtach, la cui ricchezza è variamente stimata fra 500 milioni e 10 miliardi di dollari, è libero su cauzione dopo essere stato arrestato su mandato di cattura statunitense, per un affare di tangenti pagate in India. L’accordo con cui Poroshenko e Klitschko si sono spartiti le cariche – il secondo, uomo dei tedeschi, si è ritirato dalla campagna per le presidenziali in cambio del sostegno di Poroshenko alla sua corsa per la carica di sindaco di Kiev – è stato siglato sotto gli auspici di Firtach. Cosa avranno promesso i due nuovi astri della politica ucraina all’oligarca confinato in purgatorio, col quale non hanno nulla in comune tranne che l’antipatia per la Tymoshenko? C’è chi parla di un’amnistia, chi di un’alleanza segreta tripartita per contrastare prevedibili mosse ostili della signora del gas all’indomani delle elezioni.

I quotidiani internazionali
Comunque sia, Poroshenko ha fatto il pieno alle elezioni del 25 maggio. Ora, è vero che si tratta dell’unico oligarca sceso in piazza nei mesi roventi delle proteste di Maidan mettendo a rischio la propria incolumità fisica, come i filmati di apertura e di chiusura dei suoi comizi hanno illustrato fino alla noia. Ma si tratta anche e pur sempre di un uomo che «simbolizza il sistema clientelistico che le proteste volevano rovesciare», come ha scritto il Financial Times, e «la cui carriera si caratterizza per la mescolanza di affari, politica e media», cosa che lo colloca «senza esitazioni nella categoria degli oligarchi», come ha scritto Le Monde; il Wall Street Journal lo ha definito «un veterano della sordida arena politica ucraina, che si è guadagnato una reputazione come un mediatore pronto ad allearsi con deputati di ogni appartenenza».

Le critiche di questi quotidiani europei e americani fieramente antiputiniani non hanno trovato eco nella scelta degli elettori ucraini presunti europeisti. Che del programma elettorale del re del cioccolato hanno trattenuto sostanzialmente due cose: le promesse di alzare gli stipendi a mezza Ucraina e l’impegno a riorganizzare l’esercito per trasformare l’attuale armata Brancaleone in una temibile forza armata, che soffocherà rapidamente la strisciante insurrezione separatista nell’Est del paese.

Poroshenko ha attraversato in lungo e in largo la nazione promettendo di combattere la disoccupazione: «Un nuovo modo di vivere significa che la priorità di ogni governo, di ogni autorità dovrebbe essere di creare nuovi posti di lavoro». Il problema con l’Ucraina è che dove i posti di lavoro esistono, sono retribuiti pochissimo. Il nuovo capo dello Stato ha promesso che sotto la sua guida presto tutti gli ucraini godranno di uno stipendio pari a quello dei suoi operai: 7 mila hryvnia, cioè 437 euro, che è il doppio dello stipendio medio in Ucraina. I militari, poi, ricevono un salario che è la metà di quello medio nazionale. Nella polizia ci sono oscillazioni a seconda che si tratti degli agenti o degli ufficiali. Ed è qui che si inserisce il ruolo decisivo degli oligarchi nelle regioni orientali: a Dnepropetrovsk Kolomoisky ha riportato l’ordine creando il battaglione Dnipro, una forza di polizia speciale, e gruppi di difesa territoriali stipendiati da lui in persona e da altri imprenditori della regione.

A salari rispettabili sono stati aggiunti premi in denaro per chi otteneva risultati sul campo, fino a istituire vere e proprie taglie: per ogni kalashnikov sequestrato vengono pagati 1.500 dollari e 10 mila per ogni capo secessionista arrestato. Sulla testa di un capo militare considerato responsabile di un omicidio è stata posta una taglia da 1 milione di dollari da parte della comunità ebraica locale, alla quale l’ucciso apparteneva. Accanto alle maniere forti, Kolomoisky ha saputo attuare quelle misure distensive che gli ultranazionalisti e gli euroentusiasti non erano in grado nemmeno di concepire: ha restaurato le statue di Lenin che erano state deturpate durante le proteste di Maidan e ha permesso ai reduci della Seconda Guerra mondiale di tenere lezioni nelle scuole cittadine per confermare l’interpretazione del conflitto che gli ultranazionalisti avevano ribaltato e irriso.

Le manifestazioni organizzate
A Donetsk, dove il contesto era molto più difficile che a Dnepropetrovsk, il governatore Taruta non avrebbe potuto fare molto, se non fosse intervenuto Akhmetov. Silenzioso per molto tempo e sospettato di continuare a sostenere il deposto presidente Yanukovich e i suoi sponsor russi, alla fine il più ricco oligarca ucraino è sceso in campo dalla parte “giusta”. Dopo le violenze che avevano causato molti morti a Mariupol, ha inviato migliaia di operai delle sue acciaierie ad affiancare le imbelli forze di polizia nel pattugliamento delle strade della cittadina. Ventitremila operai dipendenti di Akhmetov si sono resi disponibili per la sorveglianza della sicurezza nella regione. L’oligarca ha anche organizzato sospensioni del lavoro con annesse manifestazioni di protesta dentro ai recinti delle sue fabbriche, caroselli di auto e fischi delle sirene degli impianti. Ha pubblicamente accusato i separatisti di causare «il genocidio del Donbass», dal nome della regione, e di avere organizzato «una lotta contro i residenti della nostra regione e non per la loro felicità». «Non permetterò che ci intimidiscano, né che distruggano il Donbass», ha concluso minacciosamente.

Gran parte dei 300 mila dipendenti delle fabbriche di Akhmetov non condividono la svolta pro-Kiev del loro datore di lavoro, e l’hanno dimostrato partecipando in numero ridotto agli “scioperi” indetti dalla dirigenza stessa. Ma a nessuno di loro è venuto in mente di contrastare apertamente la nuova linea. Come ha scritto l’inviata di El Pais, «alla fine degli anni Novanta, Akhmetov fu l’unico che mise ordine nella sanguinosa guerra dei clan per la ripartizione degli affari a Donetsk. Chi aveva buon senso si sottomise ai suoi ordini, chi ne era privo no, e scomparve dalla scena».

Alla luce di tutto ciò, si può essere certi che Poroshenko e gli altri oligarchi sapranno certamente alternare il bastone e la carota sia con le opposizioni interne sia con la Russia di Putin: la loro storia personale di imprenditori intrallazzati con la politica li rende adatti ad affrontare una fase storica in cui sarà necessario fare ricorso sia al dialogo sia alle maniere forti; e tutti essi hanno interesse, in quanto produttori di beni e servizi che devono essere venduti in patria e all’estero, a mantenere unita l’Ucraina e a costruire una relazione accettabile reciprocamente con Mosca. Però le difficoltà macroeconomiche di fronte alle quali si troveranno sono formidabili. Poroshenko ha fatto campagna promettendo di rendere operativo quanto prima l’accordo di associazione con l’Unione Europea. Che però nel breve periodo è destinato a creare più oneri che vantaggi all’economia ucraina.

Nel frattempo i conti del paese non costringono il governo a dichiarare il default solo perché il Fondo monetario internazionale ha prestato il 30 aprile  scorso 17 miliardi di dollari in cambio dell’impegno a dolorose riforme. Queste prevedono l’aumento delle tasse e del prezzo del gas al pubblico e il taglio della spesa sociale, in un contesto in cui si prevede per il 2014 una contrazione del Pil nazionale del 5 per cento. Ventitrè anni dopo l’indipendenza, l’Ucraina si trova con un reddito pro capite a parità di potere d’acquisto di poco superiore ai 7.400 dollari, contro i 17.800 della Russia e i 21.200 della Polonia, i suoi due più importanti vicini. Come farà Poroshenko a mantenere le sue promesse in una situazione del genere, con Mosca che minaccia di tagliare le forniture di gas se Kiev non paga i suoi debiti pari a circa 3,5 miliardi di dollari, è la domanda che tutti si fanno.

Il percorso probabile dell’azione del neo-presidente dovrebbe essere il seguente: riconquista militare dell’Est del paese – di cui l’assalto all’aeroporto di Donetsk con un bilancio di oltre cento morti è solo un antipasto – e quindi, sull’onda della legittimazione così guadagnata, dialogo con Mosca per trovare un compromesso politico fra i due paesi. Quel che Poroshenko offrirà a Putin, lo sanno anche i sassi: la rosa dei Venti della Nato non galleggerà mai nell’aria a Kiev e dintorni.

@RodolfoCasadei

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