L’arsura rovente che angoscia l’Italia, tra metafisica e malapolitica

Terremoti, siccità, roghi. Ce n’è quanto basta per ricamare il profilo di un’emergenza lancinante, al limite del millenarismo. Ma la natura è sempre innocente

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Scriveva circa trent’anni fa il vate tedesco Ernst Jünger: «Il sospetto di essere avvelenati diventa epidemico, e non senza ragione. Ognuna delle antiche, celebri città aveva il proprio melos; lo si poteva ascoltare, con gli occhi chiusi, nel luogo e nell’ora in cui vi si era accolti come ospiti. Dei quattro elementi, l’acqua, l’aria e la terra sono divenuti sospetti, cresce la potenza del fuoco». Non era una profezia, era una prognosi e nient’affatto fausta.

Si direbbe che siamo scesi ai ferri corti con gli elementi, in questa estate di afa estenuante: la terra continua a tremare (terrae motus) negli epicentri funestati d’Italia; l’aria delle metropoli imputridisce stantia, diventa mal-aria; l’acqua si fa desiderare per lungo tempo (oltre il 70 per cento di precipitazioni in meno nel mese di giugno, dopo un inverno tropicale ma asciutto), salvo poi scendere fulminea in picchiata con violenza punitiva; il fuoco avvampa incoraggiato dall’arsura desertificante, dall’idiozia e dal dolo di misteriosi piromani.

Ce n’è quanto basta per ricamare il profilo di un’emergenza lancinante, al limite del millenarismo. Ma la metafisica c’entra fino a un certo punto, perché la natura è sempre innocente. Il riscaldamento e il raffreddamento globale, i cambiamenti climatici, il rapporto ondivago tra il Sole e i suoi pianeti ancillari, non sono altro che eterni movimenti di contrazione e dilatazione cosmica. Ci riguardano, ovviamente, ma non dipendono da noi se non nella misura in cui tendiamo a rendere le nostre dimore più inospitali di quanto possa ciclicamente fare l’atmosfera terrestre.

Avvelenare il nostro mondo-ambiente non è una pratica lungimirante: non esiste presunzione d’intelligenza per chi cementifica alla cieca senza mantenere in ordine l’assetto idro-geologico, per chi sfrutta le falde acquifere e i bacini di superficie senza curarsi della siccità incombente; per chi abbandona a sé stessi boschi e terreni incolti coi loro cumuli di sterpi infiammabili. Per non dire – come nel caso di Roma – di chi ha rinunciato a manutenere il più glorioso e antico reticolo di acquedotti che si conosca, vanto di civiltà millenarie traforato dall’incuria eletta a sistema di malgoverno. La sola idea di un razionamento dell’acqua nella Capitale, lì dove trasporti e pulizia e decoro urbano rasentano già i minimi termini, offre la misura di una bancarotta politica e imprenditoriale inappellabile. I cittadini saranno chiamati a pagare altre tasse e più elevate per disporre dei servizi pubblici basilari? Probabile. Così come è probabile che a occuparsene saranno presto, inevitabilmente, i privati.

Resta il fuoco, ammoniva Jünger, un fuoco divoratore affamato dallo squilibrio degli elementi, il dèmone guardiano del focolare che inselvatichisce e si trasforma nel caliginoso, rovente persecutore delle nostre cattive coscienze. L’uomo ci mette del suo. Nella furia moralizzatrice con la quale in Italia hanno smembrato il pletorico corpo forestale, diluito tra vigili del fuoco e carabinieri, è stata falcidiata una catena di comando e di presidio territoriale che funzionava. Una cattiva riforma della protezione civile ha svuotato i suoi poteri speciali d’intervento a beneficio delle regioni, tutte concorrenti e in ordine sparso. In questo regime di emergenza permanente, si fatica ormai a cogliere un tratto di eccezionalità. Ci stiamo abituando all’insipienza?

Ma la natura, appunto, è innocente e può salvarsi da sé: l’acqua tornerà a scorrere impetuosa, sta a noi decidere se tornare verso la sorgente di una vita ordinata o accontentarci di pozzi fangosi.

@a_g_giuli

Foto Ansa

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