La striscia di carta

La Fiera del libro invita Israele come ospite d'onore e Torino si ritrova boicottata dal solito manipolo di fanatici intolleranti. Da Vattimo a Fo, dal Manifesto alla Morgantini, così gli Hamas de noantri mostrano il peggio di sé

Cchissà da che brodo di coltura rinasce l’antisemitismo, la paranoia del complotto demo-pluto-giudaico, i blog con le liste nere degli intellettuali ebrei da denunciare come agenti provocatori del sionismo in Italia. La storia della Fiera internazionale del libro di Torino è illuminante. Ma è una brutta storia. Cominciata quando a novembre gli organizzatori del Salone, che si svolgerà dall’8 al 12 maggio al Lingotto fiere, hanno reso noto, come ogni anno, il nome del paese ospite d’onore alla manifestazione: Israele, in occasione del sessantesimo anniversario dall’indipendenza. Da allora è scoppiato il caso e Tempi ha ricostruito questa storia con l’aiuto di una voce autorevole, da molti anni impegnata con la cultura israeliana, che desidera rimanere anonima «per motivi di sicurezza personale».
La prime reazioni all’annuncio si sono avute «da parte delle frange più estreme della sinistra: centri sociali, Comunisti italiani, Rifondazione, cui ha fatto seguito il mondo di internet, blogger e siti deliranti». Uno per tutti forumpalestina.org. «Fino ad arrivare a Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento europeo». Parola d’ordine: boicottaggio. La questione inizia a farsi spinosa quando la protesta guadagna l’attenzione della stampa nazionale, a partire dai portabandiera Liberazione e Manifesto (con l’illustre eccezione di Valentino Parlato), cui si accodano voci dell’intellighentsia nostrana, come quella del filosofo Gianni Vattimo. «La reazione generale tuttavia non è quella che i sopraccitati beceri odiatori di Israele si sarebbero aspettati, bensì un bel “no al boicotaggio”». Attenzione però, perché fra coloro che dicono no «si sono infilati gli odiatori di Israele più pericolosi. Favorevoli all’invito di Israele, che avrà così l’occasione di raccontare tutte le brutture di cui quotidianamente si macchia. E chiedere ammenda. Dietro il pretesto del dialogo si vuole istituire un processo allo Stato di Israele». Nonostante ci siano state prese di posizione lucide, «come quelle del Corriere della Sera, per esempio, con gli interventi di Claudio Magris e Pierluigi Battista, e di Libero», impegnato in una raccolta di firme contro il boicottaggio, oltre che coraggiose, come quella del sindaco di Torino Sergio Chiamparino, il terreno rimane accidentato. Proprio Ernesto Ferrero, direttore della Fiera, e Rolando Picchioni, presidente della Fondazione organizzatrice, insistendo sul fatto che l’ospite è la cultura di Israele, non il suo governo, e «separando faziosamente cultura e politica», non fanno altro che «buttare acqua sul fuoco, mentre dovrebbero dire che posizioni, come quella dell’intellettuale egiziano Tariq Ramadan, che quest’anno si rifiuta di partecipare alla fiera, diffondono l’odio. Perché il pericolo vero sta nell’antisionismo che maschera l’antisemitismo».
A questo bisognerebbe sapere come si pronunciano in merito alcuni tra i principali protagonisti della Fiera del libro, ossia le case editrici. Ma Mondadori, Garzanti, Rizzoli, Sperling&Kupfer, Bollati Boringhieri ed Einaudi non hanno risposto alle domande di Tempi. D’altronde per loro si tratta di una vetrina dove esporre prodotti. Nulla più. E dove il politicamente corretto dà diritto a qualsiasi libro di circolare, delegando il giudizio al lettore. A Torino infatti hanno esposto anche case editrici che pubblicano libri negazionisti rispetto all’Olocausto, come le Edizioni di Ar di Franco Freda, già fra i principali imputati della strage di Piazza Fontana.
L’unico editore a rispondere è stato il gruppo Mauri Spagnol nella persona di Luigi Brioschi, direttore editoriale Longanesi e direttore di Guanda. «Queste polemiche rivelano un errore prospettico in quanto si tratta di un invito a scrittori. Non invitarli sarebbe come considerarli organici al potere politico. Il Salone è un luogo di commercio di cultura quindi posizioni contrarie ostacolano il dialogo, ossia la libertà culturale».

L’ambiguità della Stampa
Più sottile è la posizione della Stampa dove imperversano Moni Ovadia e il suo amico Dario Fo «legati a doppio filo all’estrema sinistra favorevole alla delegittimazione di Israele», continua il nostro interlocutore. Fo, vestiti i panni di paladino del dialogo, dopo la personale gaffe che lo ha visto dichiarare che la Palestina fa parte dell’Africa, propone di rimediare alla «gaffe politica» della fiera che dovrebbe piuttosto invitare scrittori arabi in ugual numero rispetto ai colleghi israeliani. Già, peccato che l’esempio di Ramadan (il quale ha dichiarato, e poi smentito, che «non si può accettare nulla che provenga da Israele») l’abbiano seguito in molti arabi, come il romanziere Ibrahim Nasrallah, il presidente dell’Associazione degli scrittori arabi Mohamed Salmawy, il presidente dell’Unione degli scrittori palestinesi Mutawakkil Taha, l’intellettuale Tariq Ali che parla di «brutta provocazione». Chi lamenta l’onta di ospitare un paese “razzista, fascista, coloniale” è il primo che, abdicando all’utilizzo della ragione, si comporta da nemico della libertà. Mentre per quanto riguarda la cosiddetta triade degli scrittori israeliani, Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua, a cui si può aggiungere Edgar Keret, «fuori Israele vengono pubblicati solo quando criticano il loro Stato. Ma le loro posizioni sono più variegate ed equilibrate. Per esempio nessuno rende noto che per due mesi Amos Oz è stato consigliere di Ehud Olmert per la conferenza di Annapolis». Curioso. Come il fatto che dal 14 al 19 marzo anche al Salone del libro di Parigi Israele sarà il paese ospite d’onore, eppure Oltralpe nessuna voce di dissenso si è ancora sollevata. Come mai? «La Francia ha una sinistra diversa dalla nostra, che è prigioniera dell’ideologia comunista, soprattutto dell’estrema sinistra. Siamo intrappolati negli anni Sessanta e Settanta».
Idee chiare, in disaccordo con l’establi-shment culturale vigente, le ha anche Andrée Ruth Shammah, regista teatrale ebrea erede di Franco Parenti: «Nessuna persona sana di mente può non prendere posizione a riguardo. Il fatto è che la Fiera ha invitato dei veri giganti che rappresentano oggi il fenomeno letterario più clamoroso. Chi si oppone è contro la cultura, in quanto guidato da un atteggiamento pregiudiziale e ideologico. Quello che voglio dire è che cultura significa guardare la complessità, per questo l’atteggiamento di chi non vuole Israele alla Fiera non è rispettoso nei confronti dell’arte, del talento e della qualità, e sostiene di fatto la parte più barbarica del mondo. Chi è contro l’arte infatti è un barbaro, e chi è contro la libertà e favorisce la cultura del male, come dice Magdi Allam, è contro la vita».

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