La salute disuguale

Perché le regioni non riescono a intervenire sugli squilibri territoriali. Parla Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La salute non è uguale per tutti e questa non è una novità. Ma quali sono i fattori che incidono sulle aspettative di vita nelle diverse aree del mondo e in che modo gli investimenti nel settore sanitario possono condizionare il benessere degli individui? Arriva dal Festival dell’economia di Trento (1-4 giugno), quest’anno dedicato alla “Salute disuguale”, l’invito a riflettere su un tema centrale per tutti i paesi, in particolar modo per quegli Stati, come l’Italia, che da sempre hanno fatto del proprio modello di assistenza sanitaria un pilastro irrinunciabile del welfare e oggi si ritrovano a misurarne la sostenibilità rispetto a un contesto di crisi economica e di indebitamento pubblico elevato. Il promotore del Festival, l’economista Tito Boeri, è partito dal presupposto che le differenze nelle condizioni di salute e nella longevità delle persone sono talvolta ancora più marcate che le differenze nei livelli di reddito. E sul tema ha invitato a discutere economisti e scienziati di tutto il mondo. Ma proprio sullo studio delle diseguaglianze l’Italia è all’avanguardia grazie all’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni nato nel 2002 per iniziativa di Walter Ricciardi, medico e studioso di livello internazionale nonché presidente dell’Istituto superiore della sanità. Le sue rilevazioni sulle sperequazioni nord-sud relative alle aspettative di vita hanno fatto discutere più di una volta.

Professore Ricciardi, perché in Italia la salute è “disuguale”?
Esiste in linea generale una correlazione tra il livello socio economico delle persone, inteso come ricchezza e grado d’istruzione, e la cura della salute. Il sistema sanitario nazionale nasce per applicare un correttivo, per colmare questo gap favorendo l’accesso a cure efficaci anche da parte di classi meno ambienti. Questa funzione di riequilibrio oggi è ad alto rischio per l’esistenza di disuguaglianze che si riscontrano a livello territoriale.

A che cosa si riferisce?
Gli ultimi dati dell’Osservatorio hanno fatto emergere, per esempio, che in Campania e in Sicilia si ha una speranza di vita alla nascita di quattro anni inferiore al Trentino o alle Marche. Oppure che Calabria e Campania sono le regioni in cui la spesa sanitaria pubblica pro capite è la più bassa del paese.

Da che cosa dipendono questi squilibri, secondo lei?
Esiste un problema di governance sanitario alla base di questi scompensi.

Cioè?
Lo Stato centrale non riesce a intervenire nella gestione delle politiche sanitarie che è esclusivamente nelle mani delle Regioni in base alla riforma del 2001.

Questo vuol dire che se in Campania, Calabria e Sicilia la sanità funziona male non si può fare nulla e che le persone devono rassegnarsi a vivere meno?
Il modello previsto dal nostro ordinamento, purtroppo, non consente di intervenire. A mio parere le Regioni andrebbero aiutate a compensare queste diseguaglianze ma bisogna accettare di modificare la Costituzione.

Qual è il problema più urgente da affrontare dal punto di vista della gestione?
Probabilmente la riorganizzazione della rete degli ospedali e di strutture sanitarie come i punti parto. In alcune regioni occorre un riordino a livello dimensionale in modo che assorbano meno risorse che possano essere poi utilizzate per cose come la prevenzione e così via.

Secondo alcuni, esiste un problema connesso alla sostenibilità del servizio sanitario nazionale. È d’accordo?
Sono scelte di programmazione strategica. Anche in paesi in cui si è intervenuto pesantemente sul welfare, come l’Inghilterra, le competenze in materia sanitaria sono state affidate allo Stato centrale e si è fatta molta attenzione a non intaccare l’assistenza. E anche in Italia, mi pare che alla fine nessuno metta in dubbio la necessità di un servizio sanitario nazionale. Solo che dovrebbe cambiare assetto. E per quanto riguarda le risorse finanziarie si dovrebbe intervenire subito per intercettare quella enorme spesa privata che viene erogata dalle famiglie per curarsi per incanalarla in fondi integrativi di assistenza sanitaria.

A quanto ammonta?
A circa 30 miliardi. Se si riuscisse a creare finalmente il famoso secondo pilastro della sanità, con un intervento pubblico-privato, si riuscirebbe sia a rendere più sostenibile l’intero sistema sia a ridurre le diseguaglianze.

@MRosariaMarche2

Foto Ansa

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