La prossima bolla sarà tutta d’oro

Germania, Russia e Cina fanno incetta di lingotti. E i ricconi del pianeta preparano bunker a prova di apocalisse. Cosa sanno loro, che noi non sappiamo?

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Nel 1928 Hjalmar Schacht, governatore della Reichsbank, come al tempo si chiamava la banca centrale tedesca, durante un viaggio in America fece visita a Benjamin Strong, capo della Federal Reserve di New York. Mentre conversavano, Strong chiese al collega tedesco se per caso volesse vedere, con i suoi stessi occhi, l’oro che la Repubblica di Weimar aveva affidato agli Stati Uniti, perché lo custodissero. Scesero nei sotterranei, accompagnati da uno stuolo di commessi, e attraversarono uno dopo l’altro alcuni caveau. Vennero fatti accomodare in una stanza e aspettarono. L’attesa si prolungò, finché un impiegato, in evidente imbarazzo, ammise che nessuno sapeva dove si trovassero i lingotti della Reichsbank.

L’episodio è riportato nell’autobiografia di Schacht, pubblicata negli anni Cinquanta. È da allora che intorno all’oro tedesco sono sorte leggende d’ogni tipo. Tre anni e mezzo fa, alla notizia di un’ispezione da parte di funzionari di Berlino, qualcuno mise in dubbio che la Federal Reserve avesse effettivamente conservato i lingotti tedeschi originali. L’ultima arriva in questi giorni dalla Russia: secondo l’economista Vladimir Katasonov, citato dall’agenzia di stampa pubblica Sputnik News, gli Stati Uniti avrebbero venduto, negli anni, parte delle riserve auree tedesche, salvo poi dover reperire altri lingotti quando Berlino ha cominciato a chiederne il rimpatrio.

Qualche giorno fa, la Bundesbank ha fatto sapere di avere l’intenzione di riportare in patria entro il 2017 almeno la metà delle proprie riserve, pari a quasi 3.381 tonnellate, depositate tra New York e Parigi. Una decisione che ha spinto Matt Clinch, vicedirettore del sito di informazione finanziaria Cnbc.com, a chiedersi se ci sia «qualcosa che i tedeschi sanno – e noi no». La Reuters ha ipotizzato che il rientro in Germania della seconda riserva aurea mondiale possa essere il segnale che i tedeschi non credono più nella sopravvivenza dell’euro, e che quell’oro possa quindi diventare – presto o tardi – una sorta di collaterale per la rinascita del marco.

Una cosa è certa: se la Germania, che già ne possedeva in abbondanza, si appresta a rimpatriarlo, altri negli ultimi mesi si sono impegnati a comprare più oro possibile. Russia e Cina, per esempio, hanno notevolmente rimpinguato le loro riserve: in sette anni, Pechino ha incrementato il proprio tesoro nazionale, passato da poco più di mille a 1.808 tonnellate d’oro. Nel 2016, Mosca ha acquistato in media 14 tonnellate di lingotti al mese, secondo i dati comunicati al Fondo monetario internazionale, arrivando al record di 48 tonnellate messe in cassaforte nel solo mese di ottobre, circa l’1,5 per cento della produzione annuale di oro a livello globale.

Questa corsa all’oro, che nelle ultime settimane ha riportato in alto (rispetto ai minimi recenti) le quotazioni del metallo giallo, si accompagna però a una crescita senza sosta dei valori di borsa. Dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Wall Street non ha mai smesso di macinare record: l’indice di riferimento di New York, il Dow Jones, ha infranto la quota-simbolo dei 20 mila punti. Un altro importante indice, lo S&P 500, qualche giorno fa ha raggiunto per la prima volta una capitalizzazione di mercato di 20 mila miliardi di dollari: più del prodotto interno lordo statunitense, undici volte quello italiano. Una grande festa? Nemmeno per sogno. In mezzo a tanto entusiasmo, qualcuno comincia a intravedere i rischi: Larry Fink, ceo del fondo BlackRock, all’inizio di febbraio ha dichiarato senza girarci intorno di vedere «strane ombre sui mercati» e che tutta questa immotivata euforia potrebbe essere il «terrificante» segnale che «probabilmente i mercati si sono spinti troppo in là».

È la classica situazione BTFATH (Buy The Fucking All Time High), la follia per cui si continua a comprare anche quando il prezzo è troppo alto ed è evidente che il gioco non vale (più) la candela. Le ultime tre volte che questo meccanismo scattò fu nel marzo del 1994, nel marzo del 2000 e nel febbraio del 2007: seguirono, rispettivamente, il disastro dei bond, la bolla di Internet e la crisi dei subprime.

Il ritorno della B-word
La B-word, cioè bubble (bolla), finora l’hanno pronunciata in pochi. Andrea Franceschi, sul Sole 24 Ore del 15 febbraio, faceva notare l’anomalia della Borsa che non smette di salire: «Oggi le società che fanno parte del paniere S&P 500 trattano ad una capitalizzazione che è in media tre volte il loro patrimonio. Era da prima della crisi dei mutui subprime che non si registrava un multiplo prezzo/patrimonio tanto alto. Le blue chip americane trattano ad un valore doppio rispetto al loro fatturato. Era da 15 anni che non capitava». Mark D. Cook, sul sito finanziario americano MarketWatch.com, si è spinto più in là: «Siamo – scriveva il 13 febbraio – evidentemente in una bolla: uno dei fattori per capirlo è la cosiddetta regola del -1,5 per cento, cioè un calo sufficientemente sostanzioso da indicare un cambio nel sentimento dei mercati. Bene: sono tre mesi che la Borsa statunitense non registra una chiusura in calo di un punto e mezzo. Non è mai successo per così tanto tempo, da che si ricordi: è un segno di pericolo imminente. E le bolle, si sa, presto o tardi scoppiano». In un mercato con aspettative così elevate può bastare poco, anche solo un ritardo nella realizzazione della più attesa delle promesse elettorali di Trump: il taglio delle tasse.

Rifugi da “preppers”
Così, in quest’epoca di eccessi che è già l’era Trump, la bolla prossima ventura ha già preso i connotati paranoici della “Trumpapocalypse”: non solo l’oro tedesco rimpatriato, o i russi che comprano lingotti come se non ci fosse un domani. Un paio di settimane fa, il New Yorker ha raccontato l’ossessione dei grandi manager della Silicon Valley per la fine del mondo. Li chiamano “preppers”, quelli che si preparano alla catastrofe: Tim Chang, direttore del fondo Mayfield, ha fatto sapere di aver partecipato a riunioni con i colleghi in cui si discute di come affrontare l’apocalisse in arrivo. Antonio Maria Martinez, manager di Facebook, si è costruito un rifugio con pannelli solari, armi e munizioni su un’isola nel bel mezzo del Pacifico.

Reid Hoffman, fondatore del social network Linkedin, ha ammesso che è questa la preoccupazione principale per lui e i suoi omologhi. Si favoleggia di irraggiungibili case-rifugio per Jack Ma, fondatore del colosso dell’e-commerce Alibaba, per il regista James Cameron e per l’imprenditore Kim “Dotcom” Schmitz. Va forte la Nuova Zelanda. Piace anche il Canada: è lì che i fratelli Murdoch, James e Lachlan, si stanno facendo costruire una grande fattoria con generatori, pannelli solari, una sorgente d’acqua pura e cacciagione in abbondanza nei dintorni. Così, come per i lingotti della Merkel, anche per i ricconi che si fanno il bunker è tornata la stessa domanda: cosa sanno loro, che noi non sappiamo? E insomma, magari non sarà l’apocalisse, magari sarà solo un venerdì nero a Wall Street. O forse, se Trump sarà di parola, nemmeno quello. Però non si sa mai.

@apatarga

Foto Ansa

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