La pecora nera dei “costumati”

Sull’ultimo “Tempi”, Lorenzo Albacete accennava al discorso pronunciato il 13 febbraio dal giudice della Corte Suprema statunitense Clarence Thomas all’American Enterprise Institute for Public Policy Research di Washington. Lo abbiamo letto per intero. E lo abbiamo trovato esplosivo.

Quando, il 3 ottobre 1991, Clarence Thomas giurò solennemente come giudice della Corte Suprema, nominato dall’allora presidente in carica George Bush sr., aveva quarantré anni e — lui, originario di Savannah nella Georgia del profondo Sud — una decina li aveva trascorsi a Washington. Thomas è nero e, con il giudice supremo William Rehnquist e il collega Antonin Scalia, forma il trio conservatore (su nove membri) nella massima magistratura degli Stati Uniti. Cosa fa di un nordamericano un conservatore in giurisprudenza? L’idea (fissa) che la Costituzione federale (in vigore dal 1789, ma stilata nel 1787 dai 55 delegati inviati alla Convenzione di Filadelfia dagli allora Stati nordamericani sovrani e confederati che, con le armi, avevano ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, dichiarandola nel 1776) abbia un significato univoco e certo: l’“intento originario” dei Padri fondatori, che riflette lo spirito, l’etica e la filosofia pubblica del popolo americano. E che non varia perché si fonda su princìpi immutabili mai soggetti ai capricci (e alle ideologie) degli uomini: il diritto naturale e il cristianesimo. Punto. Liberal è invece chi considera la legge fondamentale del Paese un documento in continua evoluzione creativa.

Uncle Tom Wants You
Nero e politicamente scorretto. Dunque traditore dei compagni di razza e “zio Tom” al servizio degli schiavisti. Come gli economisti di colore Walter E. Williams e Thomas Sowell (ex Harlem ed ex marine), le opinioniste Suzanne Fields, Linda Chavez e Laura Schlessinger o l’ex premier britannico Margaret Thatcher: definiti “non-neri” e “non-donne” dal black power e dalle femministe. «Mi è stato abbastanza presto chiaro — dice Thomas ripensando alla propria carriera — come tematiche veramente complesse quali quelle riguardanti la razza non venissero mai fatte oggetto di dibattiti veri o di oneste discussioni. Chi sollevava interrogativi che mettevano in dubbio provvedimenti molto popolari diventava oggetto d’intimidazioni. Non era consentito alcun dibattito. L’ortodossia veniva imposta. Se i bianchi mettevano in discussione l’opinione dominante su questioni come queste, era cattivo gusto; se lo facevano i neri, era tradimento». E «queste “regole di ortodossia” valgono ancora oggi. Se non si vuole cadere vittima di attacchi che vanno dalla semplice sfuriata alla diffamazione, è meglio non impegnarsi in dibattiti o in discussioni serie». Del resto, non destano più sorpesa «i velenosi attacchi che colpiscono chi assume posizioni contrastanti con il canone approntato dai presunti modellatori dell’opinione pubblica».

Undicesimo, non fare domande. È più educato
Nel dicembre del 1980, il giudice Thomas fu intervistato da The Washington Post e, ingenuamente, espose quelle che definisce «legittime obiezioni verso un certo numero di politiche considerate sacre»: per esempio, l’affirmative action — la legislazione federale che pretende di risolvere la questione delle pari opportunità a colpi di quote razziali e che così facendo finisce per creare criptorazzismi al contrario — e quell’assistenzialismo che costringe i disagiati in un permanente stato di frustrazione e di dipendenza. «Politiche — afferma Thomas — che mi sembravano deleterie per i loro presunti beneficiari». I danni del welfare statunitense sono infatti particolarmente evidenti nel caso delle ragazze-madri (numerosissime nelle comunità nere dei grandi centri urbani): sovvenzionate dallo Stato in ragione della loro precarietà, finiscono spesso per fare di questa condizione d’instabilità sociale il mezzo principale per farsi mantenere a spese dell’erario, considerando il matrimonio (che chiuderebbe i rubinetti del denaro pubblico) come la peggiore delle iatture. Ma, osserva Thomas, «non occorre essere né dotti né dotati di grande intelletto per capire che i bambini crescono meglio in famiglie dove ci sono entrambi i genitori. Eppure, chi osa dirlo viene sovente accusato di voler imporre i propri valori agli altri». Facendo eco a Eric Voegelin che identificava la nostra come l’epoca del «divieto di fare domande», Thomas si chiede oggi: «Perché non è stato possibile mettere in discussione queste politiche? Cosa o chi le ha poste off limit? ». E ricostruisce: «Nel settembre del 1975, The Wall Street Journal pubblicò una recensione di Michael Novak al libro di Thomas Sowell Race and Economics. Il primo paragrafo di quell’articolo cambiò la mia vita. Eccolo: “Negli Stati Uniti, l’onestà sulla questione razziale è rara. Le ingiustizie commesse contro i neri sono state così numerose e così denegate da spingere tutti alle buone maniere per paura di subire accuse intimidatorie. È per questo che persino le verità più semplici vengono eluse con disinvoltura”. Una diagnosi che si applica con ugual forza a molte importanti situazioni attuali. Chi vorrebbe essere definito un mostro spietato? Sulle questioni rilevanti, sulle questioni davvero cruciali viene imposto il silenzio». Perché? Perché il nuovo nome dell’omologazione è civility, “buona creanza”. Che è divenuta la parola d’ordine, il passepartout per la buona, onorata società: «l’insistenza sulla buona creanza nel dibattito pubblico odierno ottiene l’effetto perverso di fagocitare i princìpi, cioè la vera essenza di una società civile». Per questo non può guidarla. Citando la politologa Gertrude Himmelfarb, Thomas afferma che ridurre le virtù civiche di antica e venerata memoria a una mera idea di “buon vicinato” svuota il senso dell’appartenenza attiva a una società. E contraddice quell’idea di cittadinanza (tutta americana) che si fonda sul fil rouge “antichità classica-repubblicanesimo classico” e che — da Aristotele ai Padri fondatori degli Stati Uniti, passando per Montesquieu — in quei termini definisce la cifra (tutta americana) dell’uomo libero, responsabile e capace di autogoverno. Come ha fatto Clarence Thomas a preservarsi dal letale morbo del buonismo? La sua ricetta è questa: «Alcuni anni fa mi dissero che le sensazioni sono più importanti della realtà. Ma è una follia. Nessuna automobile si è mai scontrata con un miraggio, nessun esercito immaginario ha mai invaso un qualche Paese».

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