La Maestà della vita

Gli hanno negato la semilibertà e lo rimanderanno in isolamento. In ventisei anni di carcere duro, capita di perdere qualche contatto con il mondo. Basta una parola vera come quella di Giovanni Testori perché anche un ergastolano riacquisti una sensibilità sulla realtà più acuta di tanti liberi cittadini e pensatori di questo mondo

Carcere di Voghera, 21 gennaio. In questi giorni, con la richiesta della procura generale della cassazione perché mi venga definito il cumulo giuridico, dove mi sarà applicato anche qualche anno di isolamento come pena accessoria all’ergastolo – più che le scontate considerazioni sul senso ora di un’ulteriore pena e punizione, dopo un quarto si secolo dalla condanna e quasi come beffarda risposta alla mia istanza di semilibertà – preferisco parlare di un libro che ho appena letto, e che vorrei portare come viatico per questa nuova fuga dalla realtà e dal mondo che mi viene imposta da imperscrutabili meccanismi giuridici.

Con gli occhi di Testori Si tratta del volume che raccoglie una serie di articoli di Giovanni Testori, apparsi sul Corriere della Sera e sul Sabato nel tempo in cui, a cavallo degli anni Ottanta, in nome dell’emergenza venni segregato nei famosi braccetti di punizione: scomparso al mondo e ai miei stessi familiari, e per anni anche il mondo scomparve alla mia esperienza. Senza un giornale, una lettera, un colloquio con cui tentare, pur dal carcere, un contatto con la realtà, con la vita, con me stesso…

E solo ora gli articoli di Testori, raccolti da Frangi e Rondoni per le edizioni Rizzoli sotto il titolo emblematico ed evocatore della “Maestà della Vita” – mi hanno permesso di riappropriarmi della memoria negata e dispersa di anni ed eventi di cui avevo avuto notizia solo attraverso la distratta superficialità dei media, tra sensazionalismi e conformismi, scoop e banalità… Ma in Testori la cronaca giornalistica s’incontra e si confronta finalmente con la realtà e con la vita, divenendo lo spazio dell’inquietudine dolorosa, la porta aperta alle sensazioni, anche quelle più violente, quando la parola si infrange nello strazio di una morte per droga, nell’invettiva verso chi applaude a una condanna all’ergastolo, nel bacio del lebbroso, di un colpevole visto come simbolo dell’uomo di fronte all’ineluttabilità del suo destino terreno. Una parola di carne e di sangue, uragano interiore che travolge ogni logica, ogni attesa arrendevole, ogni possibile rassicurazione, con una scrittura proiettata verso il deragliamento dei sensi, fino a una conclusione sempre assolutamente spiazzante nella sua inaspettata evidenza… Una parola che si apre all’ascolto e s’inscrive nelle viscere e nel cuore.

Dalla parte dei perdenti Una sorta di cupa folgorazione, e ammonizione, come nei suoi testi teatrali, che danno forma verbale alle possenti figurazioni di un Goya o un Géricault, di un Kusturica o un Kurosawa, cercando di descrivere la fascinazione del terribile, la seduzione della sconfitta e insieme l’ingenua meraviglia di fronte al Mistero che è in noi e intorno a noi. Un’umanità perdente straziata dal male e dai rimorsi, schiacciata da un Cristo crocifisso nelle cronache televisive e nelle sentenze, un’umanità sballottata come su una giostra incessantemente lanciata verso il nulla, tra effimere felicità e presagi di guerra, lividi corpi denudati dalla pubblicità e perdizioni. E sempre quella sensazione della vita come esilio o come prigionia, come lontananza da un universo dei padri – o di Dio, che forse poi è lo stesso – da cui aleggia una continua nostalgia, unita alla consapevolezza dell’impossibilità di un ritorno, se non vi è uno sguardo, un anelito verso qualcosa d’Altro e di Alto.

Una voce e una coscienza, quella di Testori, che non si rifiuta certo alla chiamata – fosse pure una chiamata di correo – illuminando di dolore e di umana partecipazione le situazioni e le esperienze più terribili e disperate. Quando il grido e l’invettiva non sono solo accusa – e mai condanna – ma il grido della verità, di quella realtà da amare sempre, in tutti i modi. Il grido forse di una nascita, e una rinascita, come nei quadri di Bacon, con l’analisi, spietata fino all’atrocità, della condizione umana, ritratta nelle sue forme più distorte, con quelle macchie cupe e sanguigne, su cui sempre resta però la traccia di una Presenza, che sola può darle senso e significato…

Povericristi in attesa di Qualcuno Ed ecco che la parola di Testori eleva e trascende la cronaca, e nel rivendicare la maestà della vita richiama forse quella Maestà di Duccio, nella quale ancora vive la serena tenerezza delle Madonne bizantine, con la malinconia di una lontananza dolorosamente sentita e insieme la nuova consapevolezza di una speranza e un Evento. Una narrazione pittorica cui fanno da sfondo le immagini della Passione, dell’infanzia e della vita pubblica di Cristo, della Vergine, della Resurrezione… Momenti minimi del vivere e le più ardite rivendicazioni della fede, dove la straordinaria bellezza e l’eccezionale intensità cromatica dicono l’attenta osservazione della realtà di ogni giorno, e insieme la trascendono elevando la cronaca e il quotidiano a vicenda perenne di tutta l’umanità, dei tanti povericristi di cui Qualcuno ha voluto dividere il destino e rendere partecipi della sua Maestà.

E allora anche questo tempo, dove la soddisfatta vanità delle cronache e dei giorni nasconde alla vista ferite e dolori, questo tempo frenetico e superficiale, il tempo negato dalla condanna e dall’ergastolo, il tempo della solitudine e della lontananza può divenire il tempo che contiene in sé una grazia, il tempo che irrompe e che chiede.

Tempo di lotta allora, una lotta contro il tempo che consuma e non redime, attendendo forse, come nelle cronache di Testori, come nel silenzio dell’isolamento diurno, quell’Angelus Novus in fuga verso il futuro, e che ancora può donare uno sguardo, un senso, una parola, nel nulla di questi tempi e questi luoghi.

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