La guerra è dichiarata, quando l’amore lotta e vince contro la malattia

Film dolorosissimo e durissimo, una sofferenza emotiva per lo spettatore soprattutto se padre o madre. Tratto dalla vicenda vera della regista e interprete Valérie Donzelli (che condivide il set con l’ex compagno e il figlioletto) è un film che non lascia scampo, almeno a livello emotivo. Due giovani si incontrano, in discoteca. È il colpo di fulmine a cui segue una bella storia che la Donzelli, memore della freschezza e della vitalità della stagione della Nouvelle Vague francese, racconta con poche sintetiche immagini quotidiani e solari: ragazzi che corrono, una gita in campagna, un gelato, la spensieratezza della vita davanti e l’incoscienza della giovane età. Si chiamano Romeo e Juliette e sono belli e forti e hanno il mondo in pugno. Poi, l’imprevisto di un bimbo a cui danno il nome di Adam. I primi momenti difficili: il piccolo che piange in continuazione, la coppia che fa quadrato perché “non vuole che Adam diventi il tiranno della loro vita”, la richiesta di aiuto ad una pediatra pure un po’ psicologa. La fatica normale ed eroica, insomma, del tirar grande un bambino e dell’imparare il mestiere più difficile del mondo, quello del papà e della mamma.

La svolta è brutale e imprevista e la Donzelli racconta con tratto sobrio ma anche senza dimenticar nessun dettaglio: il mondo che crolla, un abisso di dolore senza fine, la vita che cambia. Dal lettino di casa al letto di ospedale, il calvario delle Tac, la chemioterapia, le notti infinite nella sala d’aspetto, il cambio di protocollo perché la malattia è più grave e rara del previsto. E ancora: le infermiere che ti portano via il bambino ed è una ferita lancinante, molto più dolorosa del peggiore dei tumori, i soldi che non ci sono per tutte le cure, la compagnia degli amici che non regge. La guerra dichiarata è davvero una guerra, alla malattia ma anche a se stessi, alla propria debolezza e umana di genitori che vorrebbero scappare il più lontano possibile dal lettino del figlio ma non ci riescono perché l’istinto è più forte di tutto, anche della disperazione: è una guerra senza esclusioni di colpi che – come ricorda la voce fuori campo sul finale – segna irrimediabilmente e distrugge, al di là dell’esito della cura.

La regista dirige un film molto coraggioso, rinunciando alla spettacolarizzazione dei sentimenti e mantenendo una narrazione secca, per quanto ricca di svolte impreviste (nel film qua e là si sorride persino e non mancano piccole, significative canzoni d’amore a sottolineare la storia dei due) e la sua è una cronaca, attimo dopo attimo, anno dopo anno, della discesa nell’inferno della malattia e del dolore senza fine. Il suo è un punto di vista laico – anche se nel film, a un certo punto, entra in scena la preghiera – ma l’approccio non è nichilista o distruttivo, tutt’altro. La cosa che colpisce di più di questo film è il cambiamento di Romeo e Juliette. Perché è vero, la prova può distruggere e separare e anche su questo il film non fa sconti a nessuno e non nasconde le grosse fragilità e le cadute dei due genitori, ma può anche unire e far scoprire in noi un coraggio irragionevole eppure utile, eroico. L’azione dei due genitori di fronte alla malattia del figlio è commovente: nella dedizione e nella vicinanza al figlioletto, nella compagnia vicendevole, nelle decisioni più difficili, come quella di vendere casa per poter economicamente aiutare meglio il figlio. In questo modo il film si configura come una cronaca, quasi delle immagini dal dolore ricche di riflessioni e di domande esistenziali che colpiscono lo spettatore. Come quella più forte di tutte che agita il cuore di Romeo: «Perché una cosa del genere è successa a me? Io sono così piccolo di fronte a questa immensità! Perché?».

@petweir

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