La grandezza a lungo sconosciuta e ignorata di Salgari

Bompiani pubblica racconti considerati fino a oggi perduti del grande scrittore usciti in passato sotto gli pseudonimi di “capitan Guido Altieri” e di “Giulio Retadi”. Contributo prezioso per rivalutare l'autore

tratto dall’Osservatore Romano – L’ebbrezza del narrare avventure esotiche, la fantasia che galoppa a briglia sciolta in praterie inesplorate, la fierezza di capitani pronti a sacrificarsi per difendere la propria gente, l’ardimento e la bellezza di giovani donne appartenenti a popoli lontani: la scrittura di Emilio Salgari ha lasciato una traccia indelebile e immediatamente riconoscibile nel panorama letterario italiano e internazionale dalla fine dell’Ottocento a oggi. Nato a Verona nel 1862, Salgari deve la sua popolarità a un’impressionante produzione romanzesca, che vanta circa ottanta romanzi distinti in vari cicli avventurosi e più di cento racconti.

La raccolta Lo stagno dei Caimani e altri racconti perduti, a cura di Maurizio Sartor e Claudio Gallo, uscita per Bompiani (Milano, 2018, pagine 192, euro 12), propone a un pubblico di lettori di ogni età, nove racconti, finora ritenuti perduti, scritti da Salgari sotto gli pseudonimi di “capitan Guido Altieri” e di “Giulio Retadi”, ambientati nei luoghi più ignoti e sperduti della terra, come i ghiacci del Polo Nord, le praterie dell’Arkansas, i mari della Papuasia. Lo stagno dei caimani, il racconto che dà il titolo alla silloge e la apre, si riferisce al terribile specchio d’acqua in cui Wallaka, affascinante e sdegnosa principessa pellerossa della tribù dei Creek, dà la morte al suo amato sposo Mocassino Sanguinoso, coraggioso guerriero della rivale tribù degli Shoshoni, per vendicare l’assassinio di suo padre.

I personaggi di Salgari non conoscono compromessi o mezze misure; come Wallaka, affrontano le angosciose scelte della vita con ferrea determinazione, essendo protagonisti di storie dalle forti passioni, dalla grande carica emotiva, in cui sono sempre in gioco amore, odio, amicizia fraterna, coraggio, senso dell’onore, desiderio di vendetta. Ann Lawson Lucas, studiosa salgariana, nel suo corposo volume intitolato Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura, politica, società (Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2017, pagine XVI + 442, euro 29), mette bene in luce come lo scrittore veronese abbia creato una serie di protagonisti carismatici, maschili e femminili, di ogni ceto sociale, di credo religioso, di innumerevoli paesi del mondo, mostrando un affetto speciale per i deboli e gli oppressi. Se nella maggioranza dei casi, i buoni, cioè gli eroi, corrispondono agli indigeni e i cattivi invece ai colonizzatori europei, straordinarie e anticipatrici sono molte delle sue protagoniste, forti, indipendenti, bellissime e coraggiose. Altra protagonista indiscussa è inoltre la natura, descritta con rara conoscenza scientifica e con lirismo autentico.

Fin dai suoi primi passi come romanziere, Salgari ha adottato un atteggiamento politico-morale molto originale rispetto ai romanzi eurocentrici dell’epoca (e al precursore Robinson Crusoe di Daniel Defoe, 1719), al punto che si potrebbe affermare che il suo anticolonialismo, evidente nei diversi protagonisti indigeni che si battono contro gli europei, costituisca il filo rosso di tutte le narrazioni. Se nel Corsaro Nero gli spagnoli sono tenuti in scacco dal cavalleresco protagonista e poi dal suo luogotenente Morgan, nella Tigre della Malesia, Sandokan è un pirata ferocissimo che, con quel soprannome, combatte lo sfruttamento da parte degli inglesi della popolazione delle Indie Orientali. Un colpo alle ideologie coloniali e al razzismo, più o meno esplicito dell’epoca, è inflitto inoltre dalla rappresentazione di struggenti amori tra personaggi provenienti da continenti diversi. Nel ciclo indo-malese, ad esempio, Salgari fa costantemente innamorare uomini e donne provenienti da continenti diversi: Sandokan, principe del Borneo divenuto pirata, ama l’anglo-italiana Marianna Guillonk, mentre il suo inseparabile compagno d’avventure Yanez de Gomera, nato in Portogallo, sposa l’indiana Surama, erede al trono dell’Assam.

Eppure, lo scrittore veronese, pur ambientando le sue opere nella giungla indiana, nei deserti africani, o nei mari delle Antille, a differenza dei suoi eroi, non ha mai viaggiato fuori dall’Italia: ha scritto le sue storie documentandosi su atlanti e libri cercati in biblioteca, con ricerche approfondite e certosine. Ha cominciato presto a inventare racconti che illustrava di suo pugno, con disegni in bianco e nero, vivaci, movimentati: disegni di giungle e di indigeni, di navi e di battaglie, schizzi di carte geografiche e di naufragi. Amava disegnare copie approssimative delle stampe risorgimentali di battaglie per terra e per mare e di guerriglia. Salgari, scolaro mediocre, aveva però un grande amore per la lingua italiana, per i romanzi, per lo scrivere nel quale eccelleva. Il suo stile era brioso, colorito, ricco di giochi di parole, spesso sarcastico, pieno di espressioni colloquiali.

Nonostante abbia dato nomi piuttosto esotici ai suoi quattro figli — alla femmina Fátima e ai tre maschi rispettivamente Omar, Nadir e Romero — Salgari ha trascorso la vita in preda all’ansia, una sigaretta dopo l’altra, nel tentativo di scrivere le stabilite cartelle per gli editori, in una precarietà economica crescente. Sebbene la regina Margherita lo abbia insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia, la sua situazione economica non migliorava, al punto che all’amico pittore Gamba scriveva nel 1909: «La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno e alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere».

Le mancate soddisfazioni morali a cui si riferiva Salgari facevano riferimento alla disistima e al pregiudizio nei confronti della sua scrittura da parte dei circoli letterari dell’epoca che ritenevano poco edificanti i duelli sanguinosi, la passionalità degli amori contrastati, la furia della vendetta, la critica implicita al modello culturale europeo. La ricerca di Ann Lawson Lucas sottolinea chiaramente anche l’altezzosa noncuranza ostentata fino agli anni sessanta e settanta verso l’autore veronese da parte del mondo accademico italiano e inglese, altezzoso interprete dell’alta tradizione intellettuale e letteraria. Una seria rivalutazione culturale è avvenuta invece a partire dagli anni ottanta, con l’organizzazione a Torino di un convegno su Salgari presieduto da Barberi Squarotti, evento capace di far cambiare radicalmente il punto di vista sull’opera dello scrittore, fino ad allora interpretata in modo riduzionistico come semplice narrativa per l’infanzia. Un ulteriore pregiudizio da sradicare è stato quello provocato dalla rivalutazione ideologica fascista della narrativa salgariana, strumentalizzata in funzione anti-inglese. Il convegno di Torino ha avuto anche il merito di rivalutare il linguaggio e lo stile di Salgari, per molti decenni condannati come trascurati, ma in verità originali, addirittura sperimentali: «Salgari – spiega la studiosa – amava le parole e si serviva dell’abbondanza linguistica per esprimere l’abbondanza naturale del mondo: creò una sua poetica autentica».

Ancora oggi, i fraintendimenti che hanno offuscato l’opera salgariana sono molti: non da ultimo quello sorto alla morte dello scrittore e dovuto alla diffusione di apocrifi da parte di editori senza scrupoli. I falsi si sono contati a centinaia: un mercato alimentato anche dall’equivoco creato da Salgari stesso che, anche forse per aggirare le rigide clausole contrattuali, ha scritto sotto diversi pseudonimi. Sebbene la sua vena creativa scaturisse naturalmente copiosa in modo naturale, le vicissitudini economiche in cui la sua famiglia era incorsa costringevano Salgari a produrre almeno tre pagine al giorno.

La moglie Aida, dal 1903 malata di un disturbo nervoso o mentale, era infatti piombata nella demenza più violenta e dovette essere ricoverata in un manicomio pubblico, poiché Salgari non aveva i mezzi per pagare un istituto privato a Torino, città nella quale si era trasferito con tutta la famiglia. In una sgrammaticata lettera del 20 aprile 1911, dal tono insolitamente formale e impacciato, chiedeva un aiuto finanziario al suo editore Bemporad: «Eg. Comm. E. Bemporad, Le scrivo in uno dei più tristi momenti della mia vita. Mia moglie, dopo un mese di pazzia, diventata furiosa, ho dovuto ricoverarla ieri sera al Manicomio di S. Giulio. Mi occorre di fare subito un deposito di Lire 300 che io non posseggo, perché con le infermiere, durante questo lungo periodo sono stato pelato. Io la prego Comm. di mandarmi la terza rata di 600 lire e io le prometto di rimetterle fra giorni altre cento cartelle. Mi lasci un momento di respiro per rimettermi da questa terribile scossa».

Nonostante Bemporad inviasse il denaro, solo due giorni dopo, sabato 22 aprile, Salgari scriveva tre ultime lettere: ai figli, agli editori, e ai direttori dei quotidiani torinesi. Se ai figli indicava il luogo preciso in cui ritrovare il suo corpo, nella lettera indirizzata agli editori, chiedeva loro con rabbia di pagare almeno i suoi funerali, accusandoli di essersi arricchiti sulle spalle della sua famiglia. Con mente chiara e proposito determinato, nella mattina del 25 aprile mandò a scuola i figli e si inoltrò nei boschi della Collina torinese. Si tolse la vita alla maniera giapponese dell’harakiri, squarciandosi addome e gola con un rasoio, in modo atroce. Come un personaggio dei suoi romanzi.

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