Kosovo,la sconfitta della Tv

Quando la realtà si mostra in tutta la sua complessità la tv retrocede e restituisce il diritto di cronaca ai giornali. Analisi comparata di un inviato di guerra in Irak e, poi, otto anni dopo, in Kosovo. La superiorità del giornalismo scritto che consiglia, a chi vuol capire di tutto e di più, di mollare il video e tornare sulle tracce dell’uomo tipografico

Ve la ricordate la guerra del Golfo? Fu la guerra dell’Occi-dente contro Saddam. La guerra delle prime armi “intelligenti”. La guerra della televisione globale, la guerra di Peter Arnett e della Cnn. Di quella guerra, in verità, vedevamo poche immagini. Le scie verdastre della contraerea riprese dalle telecamere agli infrarossi nel cielo nero di Baghdad, le immagini asettiche delle smart bombs alla ricerca dei bersagli, interviste rassicuranti ai soldati della coalizione occidentale nelle retrovie dell’Arabia Saudita. In verità più che delle immagini, quella guerra sancì il trionfo del telefono e della parola. La parola di Peter Arnett, uno dei pochi cronisti ad essere dotato di satellitare, uno dei pochi rimasti a Baghdad.

Ciononostante quella guerra segnò la vittoria della televisione globale, della televisione planetaria. Perfino le altre televisioni raccontavano quella guerra sintonizzandosi sulla Cnn. Otto anni dopo è venuto il Kosovo. Questa volta la Cnn e la televisione in generale sono uscite sconfitte.

La luce della Tv che oscura tutto La telecamere questa volta non solo non hanno saputo raccontarci la guerra. Non sono neppure riuscite a darci l’impressione di saperla raccontare. Inviati, troupe e tecnologie satellitari per centinaia di milioni di dollari si sono ritrovati muti e ciechi di fronte alla complessità del conflitto del Kosovo. Di fronte al vuoto degli schermi, per la prima volta dopo tanti anni sono riemersi la validità del racconto, dell’articolo e della scrittura. Pochi di quanti hanno seguito la guerra sui teleschermi hanno potuto coglierne la complessità. E in effetti dopo le prime due settimane gli ascolti delle televisioni e degli speciali sulla guerra sono caduti. I giornali invece hanno aumentato le tirature. Spettatori delusi sono ritornati ad immergersi nella lettura di articoli e pagine di quotidiani per comprendere quello che succedeva nei Balcani. Cos’era successo? Semplice: la complessità della guerra del Kosovo mal si addice alla tv. Il tubo catodico ha bisogno di elementi semplici, facilmente comprensibili, facilmente rappresentabili. Da questo punto di vista la guerra del Golfo del ’91 era la perfetta riproduzione di questi stereotipi. L’im-magine televisiva e l’immaginario collettivo dello telespettatore collimavano perfettamente. Si combatteva una guerra in cui il cattivo era uno e solo uno. Lui e il suo esercito avevano invaso un altro stato. Dall’altra parte c’erano i “buoni” che conducevano una guerra “buona”, con armi “buone” (perché l’alta tecnologia donava loro un’aura di innocenza) e dunque la guerra si svolgeva in un’atmosfera virtuale, dove la morte, il sangue, le membra dilaniate sembravano immagini retrò. Era poi quella del Golfo, una guerra dagli obbiettivi semplici. La coalizione aveva un solo fine: liberare il Kuwait e ricacciare l’esercito irakeno all’interno dei propri territori. E c’era infine la lontananza. In questo scenario di semplicità la televisione trionfava. Gli aeroplani bombardavano, le bombe cadevano, i quartieri generali diramavano i risultati dei raids e le televisioni diffondevano le notizie. Tutto chiaro, tutto logico, tutto conseguente. Nulla su cui riflettere, poco su cui dibattere. Per rendere ancora più semplici le cose era stato creato un pool di giornalisti e cameramen sotto il controllo dei quartieri generali di Desert Storm. Solo loro avevano la possibilità di accedere alle prime linee delle forze alleate, di ottenere interviste e diramare immagini. Tutto quello che veniva messo in onda era automaticamente vero perché assolutamente controllato.

La razionalità della scrittura e l’emozione delle immagini Che differenza con la guerra del Kosovo! Anche qui il cattivo c’era e si chiamava Milosevic, ma la situazione era molto più complessa. Il cattivo operava su un territorio che gli apparteneva a tutti gli effetti. Il Kosovo ancora oggi è formalmente parte della repubblica serba. E chi erano i buoni? Sicuramente gli albanesi del Kosovo. Ma quali? Quelli dell’Uck che l’Occidente affermava di non voler sostenere? Oppure quell’Ibrahim Rugova che dopo aver visto uccidere e deportare la propria gente andava a Belgrado e stringeva la mano al proprio carnefice? E dove si svolgeva questa guerra? Mancava alla televisione un’unità di tempo e di luogo. I profughi in Albania e Macedonia, gli aerei Nato nelle basi di Aviano e del resto d’Europa, le bombe su Belgrado e Serbia, e infine il buco nero del Kosovo. Quel buco nero rappresentava forse il tallone d’Achille per il sistema televisivo. Per una televisione che deve mostrare, far vedere immagini, far provare emozioni mancava l’epicentro della guerra. Un luogo fisico su cui trasferire le emozioni. Le bombe cadevano su Belgrado, la tragedia visibile era quella di civili che formalmente stavano dalla parte del cattivo.

Situazione troppo complessa da far capire in pochi minuti a spettatori seduti per cena o di ritorno dal posto di lavoro. Troppo ambigua per far provare emozioni giuste. Dal Kosovo invece, dove tutto succedeva, da quel Kosovo per cui si stava combattendo, non arrivava nulla. Era il Kosovo un grande buco nero mediatico, un universo oscuro che inghiottiva i propri orrori. Le urla dei profughi al confine, la stanchezza, lo sfinimento erano brandelli di un’immagine che la televisione non sapeva né poteva ricomporre. Il racconto di un massacro emergeva dal racconto di cento voci diverse annotate su un notes. Cento voci ricomposte nella sintesi della scrittura e comprovate da decine di testimonianze concordanti. La penna ricostruiva attraverso le parole dei profughi in fuga l’orrore, la miseria della vita quotidiana, la banale malvagità dei massacratori.

Non fidarsi del narratore, fidarsi del racconto La televisione non trovava un volto, una voce che da sola sapesse o potesse raccontare tutto questo. Di fronte al mito infranto delle armi intelligenti infallibili la televisione era ancora più impotente.

Portati dai serbi a vedere gli effetti devastanti dei bombardamenti fuori bersaglio le televisioni rischiavano da una parte di confondere i buoni con i cattivi e dall’altra di distruggere quel mito catodico della guerra pulita che la stessa televisione aveva inventato appena otto anni prima. La televisione contraddiceva se stessa e non avendo tempo di riflettere confondeva gli spettatori. Sulle pagine dei giornali la forza del racconto e della riflessione ridava luce al mosaico del Kosovo oscurato. E anche quando su quel mosaico si è fatta luce, dopo la ritirata dei serbi, dopo l’arrivo delle truppe Nato, dopo l’emergere alla luce di novanta giorni di massacri e orrori, lo schermo catodico si è mostrato troppo piccolo per poter dipingere la tragedia compiuta e quella che iniziava. Mancavano gli odori di quelle distese di fosse comuni, la desolazione senza fine di quelle città bruciate, l’angoscia di quel deserto di rovine in cui é stato tramutato il Kosovo. Mancava la complessità della nuova tragedia che si avvicinava. I corpi degli albanesi dissotterrati e i volti dei serbi del Kosovo a loro volta in fuga, a loro volta, adesso, braccati e massacrati. Come davanti ad un film troppo complesso per una serata troppo difficile gli spettatori alla fine hanno voltato canale.

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