Keela e Kaya: gemelline siamesi commuovono i medici della Columbia

La neonatologa presso la Columbia University Elvira Parravicini parla a Tempi.it delle gemelline Rebecca e Lucia, unite solo dal cuore, spiegando che cosa si potrebbe fare e perché accadono questi rari casi. Racconta poi di come il caso simile di Keela e Kaya in America abbia commosso anche le infermiere e le ostetriche che volevano l'aborto delle bambine

Sono nate da poche settimane, ma Rebecca e Lucia, due gemelle siamesi partorite all’ospedale sant’Orsola di Bologna che hanno un cuore in due, stanno accendendo gli animi del Paese. Il loro caso sta facendo discutere intellettuali, scienziati, bioeticisti e autorità religiose. C’è chi si domanda perché i genitori non abbiano abortito e chi sostiene che anche qualora ci fosse la possibilità di separare i due corpicini, salvando la vita di almeno una delle piccole, sarebbe discriminante farlo.

Elvira Parravicini, neonatologa e assistente di clinica pediatrica presso la Columbia University di New York dal 1994, interpellata da Tempi.it, prova a fare ordine: «Non si può stabilire se sia lecito separarle o meno prima di aver fatto una diagnosi medica ben precisa. Innanzitutto, bisogna capire se il cuore che le gemelle hanno in comune è abbastanza forte da tenerne in vita almeno una. Se così fosse sarebbe assurdo non separarle. Solo in caso contrario intervenire è sbagliato: significherebbe sottoporle a una sofferenza inutile».

Come accade che due gemelli possano svilupparsi condividendo parte del corpo?
E’ un processo malformativo che complica (molto raramente) la gravidanza gemellare. Le cause non sono ancora certe e possono essere differenti. Accade comunque ai gemelli omozigoti che vengono da una stessa cellula uovo fecondata da uno stesso spermatozoo e che crescendo si divide in due. Nel caso dei gemelli siamesi l’embrione si divide tardi.

Molti opinionisti sostengono che i genitori delle bimbe non abbiano scelto l’aborto per via della loro fede. Altri hanno sottolineato l’affermazione del padre: «Sono le mie figlie. Scegliere per la vita mi sembra naturale». Come se le due cose fossero in contraddizione. Lei ha visto casi simili, come li hanno vissuti i genitori?
L’amore materno e paterno è amore solo se afferma la vita dei propri figli, per cui mi sembra normale che i genitori delle gemelle italiane abbiano a cuore la vita delle piccole. La fede non fa altro che sostenere questa posizione umana. Sono convinta però che solo la fede nel Dio cristiano possa affermare la vita fino in fondo. Per un cristiano il valore della persone non è legato all’esito, all’essere belli, sani o ad avere successo, ma consiste esclusivamente nel suo legame con chi la fa: se esistiamo è il segno che c’è Uno che ci ama e ci afferma ora. Per cui anche un solo gemito di vita ha senso.

Le sono capitati casi simili?
Sì, due: uno a me, l’altro a un’amica infermiera. Il primo riguarda una ragazzina di 16 anni che scoprì di aspettare due gemelli siamesi. Avevano il torace unito e condividevano un cuore con anomalie molto complesse. Un intervento post natale fu escluso, perché non si poteva salvarne neanche una. A complicare il quadro clinico c’era la madre che aveva sviluppato una gestosi per cui partorì alla 29 settimana. Prima del parto incontrai la ragazza con il suo fidanzato. Avevano entrambi 16 anni, sostanzialmente mi trovavo di fronte a due ragazzini. Dissi subito a loro che avevo già cara la vita dei gemelli, ma che sarebbe stata breve, dato che il loro cuore era così malformato da non reggere nemmeno per un solo bambino. In ogni caso le piccole erano molto preziose per noi: avremmo fatto di tutto perché la loro breve vita fosse la migliore possibile. Mentre i genitori erano circondati da ostetriche che li rimproveravano per aver portato avanti la gravidanza, e da medici concentrati sulle loro macchine fotografiche per immortalare “il mostro”, io rimanevo sempre più colpita dall’amore di questi due giovani genitori per i loro bimbi. Subito dopo il parto cesareo il papà volle prendere in braccio quei due piccoli corpi, che erano uniti in un abbraccio. Le bambine erano davvero belle. Il padre volle poi lavarle, vestirle e portarle dalla madre perché le cullasse prima che morissero. Sapendo che il cuore avrebbe smesso di battere, di lì a breve chiesi al ragazzo se credeva in Dio. Mi disse di sì. Allora gli domandai se voleva il battesimo per le figlie. Acconsentì e mi comunicò i nomi delle bambine: Keela e Kaya. Così mi bagnai la mano destra e mentre la alzavo su una, dicendo “Ti battezzo Keela nel nome del…”, il padre mi blocco il braccio: “No”, mi disse, “questa è Kaya”. Subito pensai: “Sono siamesi, identiche, che differenza c’è?”. Ma mi fermai e ricominciai chiamando ciascuna con il suo vero nome. Mi resi conto che per un padre ognuno dei figli è unico e insostituibile, è lo stesso sguardo di Dio su di noi. Durante i pochi respiri fatti, prima che il cuore si fermasse, il ragazzo parlò alle piccole dolcemente. Diceva loro: “Il papà è qui, non preoccupatevi”. Lo guardavo mentre le cullava. Era un ragazzo robusto di appena 16 anni, eppure era già un grande padre. Nello stesso tempo mi guardai intorno e mi accorsi che tutto il personale in sala parto era in lacrime. Ma come poteva essere che le stesse infermiere e ostetriche contrarie alla nascita di bambine definite da alcuni scienziati “mostro”, fossero commosse? Mi sono resa conto che ogni uomo, quando vede il bene, può riconoscerlo vero per sé: in quel caso era il bene che viene dell’amare i nostri figli per quello che sono. Attraverso quel giovane padre ho visto la vittoria dell’amore sulla diagnosi prenatale, sugli handicap e sulla morte.

E il secondo caso?
Riguarda due genitori alla prima gravidanza. Di cui riporto fedelmente il racconto di un’amica infermiera: «Si accorsero di aspettare due gemelli e gli ultrasuoni rivelarono che erano siamesi. Erano uniti al petto e non si potevano separare con un intervento: nessuno dei due sarebbe sopravvissuto. Non sapevamo quanto sarebbero vissuti. Ci consultammo sul da fare con i genitori, che alla fine decisero di partorire prima e di accudirli in ospedale. Preparammo ogni cosa, pensammo a come idratarli e nutrirli e a tutto quanto servisse per farli sentire bene. Il giorno in cui nacquero stavano bene, respiravano senza ossigeno e le loro condizioni erano stabili. Eravamo tutti incantati, specialmente i genitori. I gemelli iniziarono a mostrare di aver fame. Questo ci sorprese. Così, li nutrimmo con il biberon. Non riuscivano a succhiare bene a causa della loro prematurità. Per aiutarle collegammo un tubicino gastrico che andava dalla bocca allo stomaco. La madre voleva allattarle, ma era impossibile dal momento che i piccoli erano abbracciati. Poco dopo i genitori espressero il desiderio di portarli a casa. Noi non sapevamo come muoverci, era la prima volta che dovevamo prenderci cura di bambini malati. Ma accettammo e riuscimmo ad aiutarli. I genitori avevano accettato la realtà prima di noi. Quelli erano i loro figli e finché era possibile li avrebbero accuditi. Perciò, istruimmo mamma e papà su come muoversi meglio: su come misurare i piccoli, nutrirli e posizionare i tubi. Il padre costruì una cornice di legno dove porre le siringhe piene di cibo, che provammo a collocare a diverse altezze fino a trovare quella da cui il cibo scendeva con una velocità di circa 30 minuti, perché reggere a mano una siringa per tanto tempo, ogni 3 ore, sarebbe stato troppo difficile. Per quei genitori il significato delle vite dei figli era l’amore che potevano dare e ricevere. Perciò, dare loro la possibilità di portare i bimbi a casa fu una gioia. Una gioia che potevano condividere con tutta la famiglia. Avevano una famiglia e una comunità di supporto che gli permise di fare questa esperienza. Insieme a questo li aiutò la fede in Dio. Ispirò anche noi medici, che giudicammo sorprendente il loro coraggio non comune. I bambini vissero per diversi mesi. Li seguimmo nelle cure a casa e i genitori mandavano lettere per aggiornare tutto il reparto: eravamo entusiasti di ogni grammo in più. Un giorno arrivò la notizia che i gemelli erano morti in pace e la lettera che lo comunicava era piena di fiducia. La lettera che ricevemmo aprì i nostri occhi su un altro modo di vivere e morire. Su un altro modo di lavorare: c’è molto di più della malattia, della guarigione. C’è molto di più di quello che già sappiamo. Quelle vite hanno cambiato non solo i genitori, la famiglia e gli amici, ma tutto il nostro reparto. Sono molto grata di aver potuto condividere quelle vite».

Exit mobile version