Scommettere sull’Italia? Non è da pazzi. «L’Italia è ancora un paese attraente». Parola di un investitore coi fiocchi

Per Joseph Oughourlian, direttore del fondo Amber Capital, burocrazia e lentezza della giustizia spaventano, ma il paese resta solido. «Grazie a una classe di imprenditori, soprattutto al Nord, che tiene a galla il sistema»

Joseph Oughourlian (foto: Meeting Rimini), 41 anni, francese di origini armene, è il fondatore e direttore esecutivo del fondo di investimenti Amber Capital, con sede a New York e distaccamenti a Milano, Londra e Parigi. Come riporta il Financial Times, è in assoluto tra i maggiori investitori stranieri in Italia con oltre 500 milioni di dollari impegnati in 20 compagnie nostrane tra edilizia, food, settore bancario e assicurativo. Oughourlian spiega a Tempi perché «l’Italia è ancora in grado di attrarre investimenti» e perché la «crisi finanziaria a volte può rappresentare un bene».

Signor Oughourlian, vale ancora la pena di investire in Italia?
Sì. L’Italia ha molte potenzialità e ci sono diversi settori in cui resta competitiva. C’è una forza del lavoro, un sistema educativo, una qualità delle persone e anche una rete di società industriali e di servizi che fanno sì che abbiate ancora tante potenzialità.

A sentirla parlare così, sembra quasi di non essere in piena crisi.
Parliamoci chiaro: resta il problema della spesa pubblica, ancora troppo importante, e soprattutto un millefoglie amministrativo che si è strasviluppato negli ultimi 20 anni, creando incertezza a livello micro e macro. Da un lato un imprenditore, come anche un investitore, si perde nel momento di entrare nel vostro mercato in un labirinto burocratico che crea incertezza, perché ci vogliono mille autorizzazioni per qualunque cosa e il sistema giudiziario è lentissimo. E questa è l’incertezza micro su cui una spesa pubblica esagerata va a inserirsi, pesando sull’economia e creando il problema macro. Che si vede nello spread, che incide sul sistema bancario e quindi sui flussi di credito alle imprese…

Un catena senza fine.
Sì, ma è un circolo da cui si può uscire. Riducendo la spesa pubblica e sfoltendo le mille regole amministrative e burocratiche, già si avrebbe un netto miglioramento dell’economia. Noi abbiamo una piccola Sgr in Italia e abbiamo dovuto assumere una persona solo per adempiere alle infinite regole.

Ci sono altre riforme che aiuterebbero il ritorno di investitori in Italia?
Bisogna ridurre le imposte, la tassazione. Non tutte, ma quelle che fanno male al lavoro, come l’Irap, che pesa sulla decisione di assumere di un imprenditore.

E l’Imu?
Per me l’Imu non è un problema, mettere imposte sulla parte non produttiva dell’economia, come gli immobili, è accettabile anche perché in Italia negli ultimi 20 anni si è investito troppo in immobili. Invece credo che questo paese ripartirà grazie alle imprese, all’industria, al ritorno alla competitività.

Ha accennato anche alla giustizia…
È questo il vero problema: è troppo lenta. Un investitore, prima o dopo, ha sempre dei problemi e deve poter contare su un sistema giudiziario affidabile, che dà certezze e reagisce subito. Invece ci sono tanti casi italiani, che conosco, in cui non si fa neanche ricorso alla giustizia perché si sa già che ci vorrebbero anni prima di arrivare a conclusione. Viceversa, chi crea un danno a un altro investitore o imprenditore, sa che può farlo perché prima che arrivi la giustizia passano anni. È chiaro che il vostro ex premier, Silvio Berlusconi, ha frenato la riforma della giustizia perché ogni modifica è stata vista come qualcosa che poteva portargli un vantaggio. Secondo me a ragione. Ma una vera riforma che restituisca efficienza alla giustizia è urgente.

La crisi è stata causata dalla finanza?
No.

Sbaglia quindi chi chiede alla finanza di diventare più etica?
Non proprio. Da una parte è giusto richiamare la finanza ad essere più responsabile e fare più attenzione su tante cose. Dall’altra io penso che sia molto facile per un politico dire che la crisi è colpa dei finanzieri a Londra, Zurigo e New York. Non voglio semplificare troppo, ma se c’è finanza è perché ci sono debiti. Prendiamo lo spread dell’Italia: se c’è speculazione è perché il debito pubblico è troppo grande. Se lo Stato italiano non avesse avuto, e siamo nel regno della fantasia, troppo debito, non ci sarebbero mercati di capitale e finanzieri. 

Ma c’è stata un’esplosione della finanza.
Certo, ma non è un fenomeno nato così, per caso. Tante volte i politici, ma anche le persone comuni, se lo dimenticano: la finanza nasce dai debiti, se c’è l’offerta è perché c’è la domanda. È vero che alcune parti della finanza sono malate, è vero che ci vogliono sistemi di controllo, è vero anche che siamo andati troppo oltre in tanti settori della finanza ed è importante che chi ha agito in modo illegale paghi, perché le persone non abbiano la sensazione che vengano usati due pesi e due misure. Tutto questo, però, riguarda più l’Inghilterra o gli Stati Uniti. In Italia è molto facile dare la colpa alla finanza internazionale, ma la verità è che i problemi sono altri. L’Italia c’entra poco con questo sistema e se riducesse il suo debito pubblico, sparirebbe la speculazione.

Per uscire dalla crisi serve più Europa, come ha detto il premier Letta intervenendo al Meeting di Rimini?
Se c’è una via maestra per uscire dalla crisi, io non la conosco. Serve più Europa? Sì. Ma cosa significa? Se uno chiede a un tedesco che cosa vuol dire scommetto che intenderà una cosa molto diversa da un politico italiano. Tante volte ho sentito l’idea di aumentare il budget europeo, fare più federalismo e quindi più spesa pubblica a livello europeo. Questa non è una soluzione e gli ultimi 15 anni in Italia l’hanno dimostrato: autorizzare più spesa a livello di Comune, Provincia e Regione può andare bene per qualche anno, ma dopo cominciano i problemi. Creare un altro livello di spese pubbliche per me è assurdo. Già Bruxelles con tutte le sue regole e i 27 paesi che litigano tutto il giorno non dà una buona immagine: bisogna riflettere prima di intraprendere questa strada. L’Europa deve essere rilanciata dal punto di vista delle sue ambizioni, e fino a qui ha fatto tanto, ma ora i suoi componenti devono mettersi attorno a un tavolo e decidere come vogliono andare avanti.

Il titolo del Meeting di quest’anno è stato “Emergenza uomo”. La crisi economica è anche crisi dell’uomo?
Questo è un tema di grande complessità. Il secolarismo è una tendenza delle nostre società e ci sono tanti altri problemi enormi come questo che stanno venendo fuori, che sono nuovi per noi e stiamo imparando a gestire. Ma è molto difficile. Per noi armeni, ad esempio, questo problema non esiste. Per noi l’appartenenza alla Chiesa non è il lusso di una scelta ma una questione di identità. Non abbiamo risentito del secolarismo, quindi non so se sia inevitabile. Per la storia dell’Armenia, per il genocidio e per come le comunità sono organizzate nel mondo, la Chiesa rimane il centro della nostra comunità e direi che in generale per i cristiani del Medio Oriente non esiste l’idea di nascere in una famiglia cristiana ma poi scegliere di non abbracciare quella fede. Sono problematiche che non ci sono. Ho incontrato armeni che non credono in Dio ma vanno a Messa e rispettano i preti lo stesso e lo fanno perché altrimenti tradirebbero la loro identità, la loro storia.

In Europa non è più così già da molto tempo.
Da una generazione all’altra stanno crollando tutte le nostre istituzioni, tutte le idee che avevamo e oggi sembra che tutto quello che pensavamo prima fosse sbagliato.

I paesi che non prendono questa strada sui temi etici oggi vengono chiamati “retrogradi”.
Non si può fare tabula rasa di duemila anni di esistenza dell’uomo, pretendere di avere capito tutto proprio adesso e reinventare l’uomo post-moderno a piacimento. Io penso che la crisi economica sia planata sopra queste tendenze, che erano già in atto nella società. È più congiunturale, direi, un epifenomeno. Che però le ha fatte scoppiare perché finché va tutto bene di queste cose non si parla, non ci si chiede che società desideriamo e dove vogliamo andare.

In Francia ve lo siete chiesti, anche se la crisi non è forte come in Italia?
Guardi che la Francia è messa peggio dell’Italia. Ma siccome a tutti i livelli c’è una specie di arroganza, i francesi non vogliono vedere la realtà.

E qual è la realtà?
Siamo arrivati a livelli di spese pubbliche e copertura sociale insostenibili. E questo lo sanno tutti, i numeri ci sono, il sistema pensionistico non può andare avanti così. Eppure si fa fatica a fare riforme perché la Francia, al contrario dell’Italia, non ha lo spread.

Sta per dire che lo spread fa bene?
Io penso che alla fine la disciplina dei mercati sia l’unica cosa in grado di convincere i politici a fare riforme. L’Italia le ha fatte solo con Monti, perché è arrivato in un periodo di crisi pazzesco. Già questo governo, invece, mi sembra che non faccia niente perché l’emergenza si è ridotta. Alla fine, forse, la speculazione può rappresentare un bene e può portare anche dei vantaggi perché obbliga a una reazione.

Una reazione che secondo lei la Francia non ha avuto?
In Europa i paesi più colpiti dalla crisi sono quelli che hanno reagito di più. La Francia non ha avuto spread e speculazione e quindi è convinta che vada tutto bene o che non vada troppo male. Ma non è così: quando guardo i dati macro non vedo grandi differenze tra la Francia e l’Italia. Anzi, l’Italia è messa meglio, perché è diversa.

Cioè?
La Francia non potrebbe mai sopravvivere con tassi sopra il 4 per cento, l’Italia invece ce l’ha fatta. E c’è riuscita perché può contare su una generazione e una classe di imprenditori, soprattutto al Nord, che alla fine tiene a galla e fa vivere tutto il paese. La Francia invece è l’esempio da non seguire. Sta battendo il record mondiale di spese pubbliche, non si capisce che una volta raggiunto il 60 per cento di spese pubbliche sul Prodotto interno lordo, è finita. Mi spiego: l’Unione Sovietica è arrivata a quel livello. Ma dopo c’è stato il baratro. 

@LeoneGrotti

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