È arrangiato male e non dice nulla. Storia dell’origine “senza pretese” dell’inno della Champions League

Lo scrisse 21 anni fa Tony Britten, compositore di jingle pubblicitari, che ci lavorò appena un mese rielaborando un inno di Handel del Settecento.

«Non per forza doveva essere un’opera d’arte». Eppure l’inno della Champions è diventato famosissimo, più celebre di sicuro di tante arie di musica classica, a partire dall’inno di Georg Friedrich Handel Zadok the Priest da cui è arrangiato. Nessuno si è mai curato più di tanto del fatto che le poche parole che ne accompagnano le note sono di per sé povere di significato, ne del fatto che più in là del ripetere frasi incensatorie nei confronti del vincitore non si va. Eppure quei dolci colpi di violino suonano mitici, se non quasi sacri, e le vibranti voci che intonano in coro l’inno della Champions scaldano i più importanti match di calcio europeo da ormai due decenni.
Domani verrà suonato per la ventunesima volta in una finale del massimo torneo continentale, per la gioia e la fortuna di Tony Britten, il compositore britannico che a inizio anni Novanta lo incise.

CI LAVORÒ UN MESE APPENA. La sua storia è raccontata oggi dal New York Times, non senza una certa ironia per la fortuna di quel pezzo. Scritto senza particolare aspettativa da Britten, che all’epoca musicava jingle pubblicitari, e che dietro a quello spartito ci rimase 3 o 4 settimane, non di più. «Devo dire che è stata una vera sorpresa vedere quanto è durata la composizione è quanto popolare è poi diventata. Devo essere onesto: quando mi assegnarono questo lavoro, era per me soltanto l’ennesima cosa da fare».
La società che gli aveva commissionato l’inno voleva restituire il calcio ad un’immagine pura dopo i disastri e le violenze degli anni Ottanta-Novanta e quindi spingeva per usare la musica classica.
Così la scelta cadde su Zadok the Priest, inno scritto da Handel per l’incoronazione di Giorgio II di Gran Bretagna del 1727 e suonato ad ogni proclamazione di un sovrano britannico: Britten lo arrangiò nei suoi punti salienti e dandogli un nuovo testo. Anch’esso nato in maniera un po’ maccheronica: Tony pensò ad alcuni aggettivi superlativi in inglese, li tradusse in francese e tedesco, le tre lingue della Uefa, e li inserì tra le note per rendere l’inno magniloquente e universale. Ogni tifoso avrebbe potuto capirlo e condividerlo, immedesimandovi i propri sogni calcistici. E così si arrivò alla registrazione, fatta a Londra, con la Royal Philharmonic Orcherstra e il coro dell’Academy of St. Martin in the Fields.

“MALEDIZIONE DI HANDEL”. A rileggere la storia e il testo viene da sorridere: tanta popolarità per una canzone così anonima, sia nelle parole sia nelle note. Eppure la magia che si porta dietro quell’inno ha un fascino che esula dal valore musicale in sé. Non importa se, come dice il critico statunitense Steve Smith, la canzone della Champions è diventata «la maledizione di Handel» e che le differenze tra la versione settecentesca e quella calcistica sono davvero minime. Forse l’arrangiamento operato da Britten ha dato la ventata di freschezza decisiva per quella musica, o forse la grande forza del calcio e della Champions hanno fornito la spinta decisiva, rendendo l’inno sinonimo di grandi serate.

@LeleMichela

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