Indipendentismo catalano figlio del mondo senza identità

L'indipendentismo catalano si spiega col bisogno di identità dell'Occidente post-moderno, al quale dà una risposta illusoria

Ogni anno che passa gli Stati europei devolvono una quota maggiore della loro sovranità all’Unione Europea; dal 1714 la Catalogna non ha mai goduto di tanto autogoverno quanto quello che la Costituzione spagnola del 1978 le ha riconosciuto e che è stato ampiamente attuato; la lingua catalana, dominante per legge nelle scuole della comunità autonoma, non è mai stata tanto in salute come oggi; dopo la crisi economico-finanziaria del periodo 2008-12 che ha investito tutta la Spagna il Pil pro capite e l’occupazione hanno ripreso a crescere e sono tornati ai livelli pre-crisi, con la stessa differenza di prima a vantaggio della Catalogna; infine Barcellona è una delle città più cosmopolite d’Europa. Perché proprio adesso quasi metà della società catalana si lancia nell’avventura di trasformare la comunità autonoma in uno Stato nazione, sfidando il resto della Spagna e l’Unione Europea? Per quale paradosso una parte della Catalogna esige la piena sovranità quando la sovranità degli stati europei vale sempre meno, invoca libertà quando gode da decenni di una libertà senza precedenti e crescente?

L’analisi dei fattori politici ed economici della crisi, che certamente non vanno trascurati, non scava abbastanza in profondità. Per capire quello che sta succedendo bisogna inquadrare la specificità della situazione catalana nel clima culturale determinato dalle trasformazioni avvenute nelle società europee. In questo senso la risposta di maggior spessore alle domande di cui sopra l’ha data probabilmente il giornalista spagnolo Fernando De Haro, responsabile di trasmissione a Radio Cope, la radio della Conferenza episcopale spagnola. «L’identità occidentale è sempre stata costruita nel dialogo e nella tensione tra “essere fatto” e “farsi”», ha scritto in un intervento apparso sul sito web Ilsussidiario.net. «Un’identità si creava partendo dal dato. Si parla, è vero, di una tradizione catalana, dell’eredità del Medioevo, ecc., ma non si tratta di questo. È un fenomeno attualmente diffuso nel mondo: si creano nuove identità religiose, culturali, nazionali, familiari, in nome del passato, quando in realtà l’eredità della tradizione, della tradizione reale, è stata gettata via. Sono identità create ex novo, postmoderne, figlie della volontà di autodeterminazione, che non è solo il primato della volontà di raggiungere le capacità di un governo pienamente sovrano, ma l’espressione di un “voler farsi” assoluto, del dominio senza troppi complimenti del progetto sul dato. La globalizzazione con la sua società postmoderna e liquida (la Catalogna è la società più postmoderna e liquida della Spagna e di buona parte dell’Europa) accelera il processo. I vincoli che consentono di “essere fatto” sono spariti e servono nuove appartenenze a cui si possa ricorrere per superare lo smarrimento. E così, tutti insieme, arriva il momento di farsi come nazione e Stato».

Il paradosso della civiltà occidentale in questo inizio di XXI secolo è la passione per l’autodeterminazione giunta al parossismo nello stesso momento in cui gli assetti della politica, dell’economia e della scienza hanno ristretto al massimo lo spazio entro cui il soggetto può effettivamente autodeterminarsi. Agli occidentali non basta più determinare da sé i propri imperativi morali e i propri legami ideali e umani, senza imposizioni da parte della Chiesa e dello Stato: l’autodeterminazione legalmente riconosciuta e politicamente promossa come il più alto dei valori si estende al genere sessuale, al fine vita, a tutti gli aspetti della procreazione. L’orizzonte culturale occidentale è ormai palesemente quello dell’uomo Dio di se stesso, creatore di se stesso, sovrano assoluto di sé, dedito al “farsi” e immemore dell’“essere fatto”. Lo stesso approccio è esteso alla politica almeno a partire dal Sessantotto: lo slogan del Maggio francese «Corri, compagno, il vecchio mondo è dietro di te!» esprime bene la rottura con la continuità storica, la tradizione, le istituzioni ereditate. Da quel momento anche il processo di integrazione europea è condotto all’insegna del rigetto della storia del continente e in nome di valori astrattamente universali: l’Unione Europea rifiuta di menzionare le sue radici giudaico-cristiane nell’abortita costituzione, propone solo motivi architettonici astratti sulle banconote della moneta comune e definisce la sua identità in termini meramente procedurali.

Il paradosso di tutto ciò sta nel fatto che mai come oggi gli occidentali hanno preso coscienza di non potersi veramente autodeterminare quasi sotto nessun aspetto. Se dà retta a biologi, genetisti e psicologi, l’uomo altro non è che un fascio di reazioni bio-chimiche determinate dagli imperativi dell’evoluzione, senza la minima traccia di quello che da Sant’Agostino in poi viene chiamato “libero arbitrio”. Quanto al livello politico, le cose non vanno affatto meglio: a causa della competizione commerciale planetaria determinata dalla globalizzazione, i singoli stati sono costretti a omogeneizzare le proprie politiche economiche e le proprie legislazioni sociali, ad aggregarsi in entità sempre più vaste, ad accettare l’uniformazione degli standard della produzione e dei prodotti. In altre parole, la politica nazionale perde potere reale ogni giorno che passa, travolta dagli imperativi della competizione globale e della finanziarizzazione dell’economia e dalla necessità di devolvere competenze a entità sovranazionali e di sottomettersi a giurisdizioni internazionali.

Il tentativo di creare nuovi stati allora pesca nel pozzo dell’umana esigenza di identità e di protagonismo, messa in crisi dal rifiuto sessantottino dell’eredità e della tradizione, dai processi di globalizzazione e dagli inquietanti progressi delle scienze naturali. Più ci accorgiamo dell’omologazione che ci ha investito, più desideriamo distinguerci gli uni dagli altri. Più siamo tutti uguali, e più vorremmo essere diversi, originali, irripetibili. Angosciati dal dissolversi della nostra identità, ci ricopriamo di tatuaggi per illuderci di essere unici. Ci ritroviamo privi di identità storica e confinati dentro a rapporti di puro scambio di merci e servizi con gli altri cittadini, e allora ci inventiamo un’identità storica e ci diamo una narrazione collettiva appassionante, capace di suscitare forti sentimenti di fraternità e di comunanza con migliaia di persone che fino all’atro ieri ci erano estranee. Tutto il discorso catalanista è intessuto di falsi storici, a cominciare dai fatti del 1714, presentati come l’esito di una lotta per la libertà della nazione catalana contro gli spagnoli che alla fine la sottomisero, quando invece si trattò di un conflitto fra dinastie reali europee, nel quale il principato di Catalogna scommise sulla casata perdente (quella di Carlo d’Austria, dopo avere in un primo tempo scelto i Borboni che poi avrebbero vinto). Ma la correttezza delle ricostruzioni storiche non conta nulla, quando il racconto si dimostra capace di generare un’identità collettiva, un soggetto politico che altrimenti non esisterebbe. Come diceva il vescovo ausiliare di Sarajevo Pero Sudar per spiegare le dinamiche delle politiche identitarie nei Balcani: «Da noi i politici non promettono alla gente un futuro migliore, ma un passato migliore».

L’indipendentismo catalano permette a due milioni e passa di persone di credere di avere un’identità in un mondo dove le identità collettive sono andate smarrite, e lo fa con un atto di autopoiesi assolutamente coerente con lo spirito moderno. Permette l’esperienza esaltante della fraternità in armi (per adesso le armi della politica, ma da certe iniziative di solidarietà coi catalani da parte degli eredi dell’Eta nei Paesi Baschi c’è da preoccuparsi) e quella gratificante del vittimismo. Nel mondo del relativismo morale, dove le gerarchie etiche sono abolite, potersi presentare come vittime permette di esibire quella superiorità morale che non può più essere ricercata nel paragone con le virtù. Anche perché l’altra illusione, quella di tornare ad essere sovrani rispetto alle politiche macroeconomiche e alle relazioni internazionali, è destinata in ogni caso a svelarsi come tale ben presto. Governo di Madrid e istituzioni di Bruxelles rifiutano di riconoscere tale sovranità, così come tutti i paesi del mondo (tranne forse il Venezuela di Nicolas Maduro). Anche nel mondo ideale che i leader indipendentisti hanno venduto come realistico ai loro seguaci, una Catalogna che attua la secessione senza pagare alcun prezzo politico-economico e viene accolta senza colpo ferire nell’Unione Europea si ritroverebbe con gli stessi condizionamenti di oggi per quanto riguarda l’economia-mondo globalizzata; sarebbe schiacciata da un debito pubblico pari al suo Pil e dovrebbe adattarsi alle politiche di rigore alla Schaüble. A godere i frutti dell’indipendenza sarebbe solo la nuova casta politica nazionalista. A meno di non imboccare la strada indicata dagli estremisti della Cup, il partito di estrema sinistra il cui voto nel parlamento autonomico catalano è stato decisivo per approvare l’indizione del referendum: approfittare dell’indipendenza per portare avanti il processo rivoluzionario che liquiderà il capitalismo e lo sostituirà col comunismo. Molto meno rischioso e molto più redditizio giocare a fare le vittime per molti anni a venire, no?

@RodolfoCasadei

Foto Ansa/Ap

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