Indagine sul successo tuttora ineguagliato dell’immortale Lucio Battisti

L’artista che non accettò mai di aggrapparsi a un girotondo per promuovere una canzone. Uno per cui anche Hegel poteva diventare un nome di donna

Oggi è l’anniversario della morte del cantautore Lucio Battisti (Poggio Bustone, 5 marzo 1943 – Milano, 9 settembre 1998). Ripubblichiamo un articolo apparso sul numero 14/2011 del settimanale Tempi (“Dieci ragazze per me e zero titoli di cronaca”).

Quando Mogol tentò di sconfinare dalla rima cuore-amore, nessuno ci capì nulla. Tanto per cominciare non ci capì nulla lui, Mogol, come scrissero molti critici. Era il 1974 e Lucio Battisti, già famosissimo, si era trasferito per qualche mese in Sud America con l’obiettivo di catturare idee nuove. Ne uscì un capolavoro (Anima latina) che rimase in classifica sessantacinque settimane, di cui tredici al primo posto, e nonostante testi e musiche avessero temporaneamente abbandonato l’ortodossia delle «bionde trecce gli occhi azzuri e poi», e oltretutto per imboccare (mai era successo nella sfarzosa vicenda della coppia) strade divergenti. Ma quello era un momento in cui Battisti avrebbe venduto anche con le filastrocche dello Zecchino d’Oro. Trentasette anni dopo, l’album è quasi sconosciuto. I più solidi fan di Battisti lo amano perdutamente ma il resto del mondo, i battistiani estivi o di ritorno, oppure i ragazzi che scoprono il miracolo nell’ultima compilation, di quella perla sanno poco o nulla. Per spiegare che cosa c’è dentro, sono leciti tutti i paroloni del caso: fusion, progressive, concept, eccetera eccetera. Forse basta dire che, tranne una, le canzoni non hanno ritornello. E poi c’è il lavoro di Mogol. Il pezzo che dà il titolo all’album dice: «Scende ruzzolando/ dai tetti di lamiera/ indugiando sulla scritta/ “Bevi Coca-Cola”/ Scende dai presepi vivi/ appena giunge sera…/ quando musica e miseria/ diventan cosa sola/ La gioia della vita/ la vita dentro gli occhi dei bambini denutriti/ allegramente malvestiti/ che nessun detersivo può aver veramente sbiaditi…». Mogol disse di non aver scritto nulla di meglio, né prima né dopo. E Battisti, intervistato per l’occasione, disse con un raro sbuffo di snobismo che la canzone italiana era ancora legata alla strofa e alla rima.

Dodici anni dopo, incidendo Don Giovanni (1986), il suo primo lp coi testi di Pasquale Panella a cui ne sarebbero seguiti altri quattro, Battisti completò la rivoluzione avviata con Anima latina e abbandonata col ritorno ad architetture più convenzionali. Secondo i sacerdoti del culto battistiano, i dischi finali non hanno nulla meno dei precedenti e, anzi, ne sono l’evoluzione e il compimento, e offrono brani moderni e anticipatori. Però, daccapo, non c’è un cane che li fischietti. E del resto, sebbene la cosa a Panella piacerebbe moltissimo, vien difficile smuovere l’attenzione della biondina intonando «è successo quello che/ doveva succedere/ ci siamo addormentati/ perché è venuto il sonno/ a farci il nostro/ periodico ritratto…». Si continua a cantare altro: il precedente.

Ancora oggi re delle playlist
Un sondaggio promosso nel 2009 da Sounders Listening, l’osservatorio tecnologico di Sounders, ha rivelato che quell’estate il cantante più sfruttato in spiaggia, per la schitarrata di mezzanotte, è stato Lucio Battisiti coi suoi grandi classici, specialmente Dieci ragazze. È un pezzo del marzo 1969. Racconta di un tizio che vuole per sé dieci ragazze, una perché sa bene ballare, una perché ancora non sa cosa vuol dire l’amore, dieci ragazze così che dicon solo di sì, ma in realtà il giovanotto sta cercando di dimenticare l’unica per cui davvero sospira. Il 75 per cento degli intervistati confessò di avere Battisti in repertorio e gli altri, Vasco Rossi, Ligabue, Adriano Celentano, Franco Battiato, Claudio Baglioni eccetera, seguivano con percentuali dal 53 in giù. Ancora nel 2008, a dieci anni dalla morte e a quattordici dall’uscita dell’ignoratissimo disco di commiato (Hegel, 1994, a giudizio di chi scrive la miglior composizione di Battisti), nelle tasche degli eredi è entrato un milione di euro in diritti. E stiamo parlando di un mondo in cui la musica non si acquista più, la si sente liberamente su internet. E infatti – operazione per niente scientifica ma altamente indicativa – lo scorso 28 marzo, intorno alle 18, su YouTube il primo video offerto per Sally di Vasco Rossi era stato visto da un milione e 437 mila persone, il primo video offerto per Pensieri e parole di Battisti da un milione e 490 mila.

Ci sono almeno mille ipotesi per spiegare il fenomeno. Una su tutte: Battisti era e rimane il più bravo. Noi però vorremmo approfondirne un altro paio, la prima delle quali va espressa bruscamente: non ha cercato di essere che un cantante. Già agli esordi, quando era, diciamo così, più espansivo, nelle interviste voleva parlare di niente altro che accordi e arrangiamenti, e se qualcuno gli chiedeva un giudizio su Aldo Moro o notizie di recenti filarini, si scocciava e mandava tutti al diavolo. Poi si ritirò, secondo il motto per cui un artista è quel che fa e non quel che dice, e non lo si vide né sentì più.

Vecchioni, Battiato e altri patriarchi
Non stiamo consigliando un eremitaggio altrettanto drastico ai divi di oggi, ma di trarne ispirazione sì. Non c’è artista che si contenti di mettere sul pentagramma le farfalle nella pancia. Vogliono fare altro ed essere oltre, evolvere da giullari a patriarchi, non limitarsi a intrattenere ma sollecitare riflessione abbracciando – in un periodo che va al di là di quello previsto da introduzione-strofa-ritornello – i più profondi guasti dell’attualità, o persino dell’umana natura. Roberto Vecchioni da sempre girotondeggia con la moglie Daria Colombo, dice la sua sulla censura e Arthur Rimbaud, sulla condizione della donna e Fernando Pessoa. Con rispetto parlando di un fuoriclasse, Franco Battiato è un Marco Travaglio ante litteram, uno che già nel 1988 aveva emesso la sentenza inappellabile: «Questo secolo oramai alla fine/ saturo di parassiti senza dignità/ mi spinge solo ad essere migliore/ con più volontà./ Emanciparmi dall’incubo delle passioni/ cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male…». È un cantautore che ha già archiviato la rivendicazione sociale (andate a risentirvi Povera patria) e aspira al rimedio nella metafisica: è schifato dai simili e cammina un metro sopra terra temendo di inzaccherarsi i tacchi degli stivali.

Naturalmente ci si dilungherebbe volentieri su e giù per l’ottovolante delle ambizioni. C’è un vecchio artista come Francesco De Gregori che si rilancia periodicamente riscoprendo che cosa c’era di buono nei ragazzi di Salò o nelle proposta politica di Ferdinando Adornato. C’è Fiorella Mannoia dedita a ogni causa, dal pacifismo alle prerogative della magistratura inquirente. C’è Francesco Guccini che a settant’anni, dopo qualche romanzo, scrive un libro che è un po’ autobiografia e un po’ teoretica dell’Appennino. C’è Emma, l’ugolina appena sbocciata, che è già in piazza, in pieno Sanremo, a fianco delle guerriere dell’emancipazione. C’è uno strepitoso Ivano Fossati che ti infila a tradimento le citazioni di Beppe Fenoglio («ed è ben altro che bastoni e coltelli/ non essere visto e non vedere/ essere piombo caduto fuso sulla terra…», da Bella speranza, brano del 1996). C’è poi tutta la celebre pletora impaziente di sponsorizzare, in un reciproco inchino, l’ultimissima urgenza democratica.

Pure uno schivo come Vasco Rossi (forse l’unico vero campione nazional popolare, forse l’unico vero erede di Battisti), uno che non ama prendersi sul serio, uno a inizio carriera scostato con l’accusa di essere tossico, e lui se ne rimaneva beato ai margini della contesa, da qualche tempo è stato innalzato al soglio laico e si butta in qualche inatteso Primo Maggio, in qualche improvviso blitz antileghista, in qualche ovvietà antiberlusconiana. E saremmo nel fisiologico se, in occasione dell’uscita di Vivere o niente (in vendita dal 29 marzo), non avesse avanzato la proposta illuministico-teologica: la scienza ha dimostrato l’inesistenza di Dio. Come si giunga a tanto nell’illustrare un disco, è misterioso oltre che faticoso e in una certa misura controproducente. Ecco, tutto questo per dire: ve lo vedete Battisti che parla di escatologia lanciando Una donna per amico? E, infine, occuparsi soltanto di sibemolle non è che sfavorisca il titolo in cronaca per favorire l’immortalità canora?

Al contrario, quando uscì Hegel, e i critici caproni non ci avevano capito un tubo, e scrissero che Battisti si era dato all’idealismo tedesco, quel gigante di Panella trasecolò beffardo: «Colpa mia, ero convinto che Hegel fosse un nome di ragazza». E infatti il disco parla di una ragazza che «il nome se lo prese in prestito dai libri». Sempre lì eravamo, alle bionde trecce: soltanto si era passati da Mogol a Panella, cioè dal bell’immediato al multiforme bellissimo. E il multiforme non si canticchia, lo abbiamo detto.

Disimpegnato sarà lei
E del resto pure il pensiero filosofico di Vasco è esaurito in maniera strepitosa in Vita spericolata, che è un brano di ventotto anni fa. La conosciamo tutti, no? Vuole una vita che se ne frega, vuole una vita come Steve McQueen, vuole una vita esagerata, come quelle dei film… ma intanto l’incedere è malinconico, la musica è crepuscolare, già non ci crede più, già il furore è alle spalle, è già disillusione, già pensa a quando si ritroverà come le star a bere del whisky al Roxy Bar. Non da star, ma come le star. Fine. Fantastico. Non c’è più niente da dire. Poi ha fatto altre canzoni, belle o strepitose, ma non ha aggiunto nulla. La questione era risolta.

E Battisti, allora? Beh, intanto bisogna dimenticare il mito della fascisteria. Era, appunto, un mito. Probabilmente Battisti non aveva la struttura per dirsi di destra o di sinistra o di centro. Come si è accennato, non parlò mai di politica. Si affidò al racconto della donna nei milioni di sfaccettature che l’amore offre, un filone disimpegnato soltanto nelle convenzioni ciclostilate degli anni Settanta, di certo un filone inesauribile che favorisce un linguaggio stilnovista, scapigliato, romantico, dadaista, intimista, il tutto in un gusto post-modugnano e ultra-pop, il genio musicale di Battisti e la gran trovata di Mogol. Allora: c’è la donna mignotta, c’è la donna del focolare, c’è la donna bella ma scema, la donna non così bella ma impareggiabile, c’è quella che non è «tanto bella e nemmeno intelligente/ ma non ti importa niente/ perché tu non lo sai…». C’è la cassiera del supermarket e lui va a comprare le banane giusto per vederla. C’è la ragazza madre che trema davanti a un uomo. C’è quella che anche quando torna vestita di pioggia, con lo sguardo stravolto da una notte d’amore, è comunque bella. C’è quella di cui ha paura di innamorarsi troppo, quella da cui fugge, quella che lo lascia per tornare dal marito e dai figli, quella che di notte è puledra impetuosa e c’è quella con cui stringere un carrello pieno sotto braccio a lei. E chi non ha spinto un carrello pieno sottobraccio a lei? Chi, nella vita, dopo le afflizioni politologiche ed esistenzialiste, non ha incontrato o sognato una a una le mille donne di Battisti, e non se le è cantate e ricantate?

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