Incrollabili

I cani, la luna, le campane e un drago che ha fatto piovere pietre per trenta secondi. I racconti omerici e biblici delle genti d’Abruzzo, che cercano tra le macerie un senso al loro dolore. Viaggio tra gli sfollati e le loro certezze antisismiche

I cani sono stati i primi ad accorgersi dell’arrivo del drago. (Il terremoto è come un drago che sbuca da sottoterra che tutto squassa e infrange. È invisibile eppur reale, è il materializzarsi del male in frane, distruzioni, crolli. È un mistero cosa distrugga e cosa risparmi. A Onna – il paese che piange 40 dei suoi 250 figli – accanto alla casa in macerie, s’erge quella percorsa solo da due sottili crepe. A Onna si vede un muro, l’unico rimasto in piedi di un’abitazione di cui si può solo fantasticare l’antico perimetro, su cui sta appeso un quadro. È venuto giù il mondo, ma non il chiodo. Non c’è scienza che possa prevedere i movimenti del drago, conoscenza geologica che sappia dove e come colpirà. Ci sono solo i guaiti dei cani, prima, e lo strazio delle macerie, dopo).

Lo zio di Antonella, Tonino, quella notte s’è affacciato al balcone: zitto, bestia!, la smetti di abbaiare? Erano le 3.15, dieci minuti dopo il terremoto ha srotolato la sua lingua di drago facendo sussultare la via principale del paese, e le sue case e la sua gente. S’è portato via la signora Tina, la fornaia che trascorreva le giornate ad innaffiare i tulipani gialli e rossi, quelli del cortile da dove era solita – e così anche quel pomeriggio – partire la processione della Domenica delle Palme. Oggi il giardino è circondato da grigie viscere di mura, ma i tulipani sono ancora lì, e dev’esserci un’anima buona tra i vigili del fuoco che ogni giorno ci versa sopra qualche bicchiere d’acqua.

La Tina, come tanti, se l’è portata via il drago, quella notte in cui cominciava la settimana santa. Antonella, una sera, mentre mangia piano piano al tavolo sotto la tenda della protezione civile, racconta: «Prima s’avvertono dei tremolii, poi il frastuono. La luce va via, rimane solo la luna». Antonella ha guardato fuori dalla finestra e ha visto il bianco sporco e polveroso delle macerie, impenetrabile. Poi due minuti di silenzio. Due minuti di un silenzio sconosciuto. «Poi le urla squarcianti il cielo». Gli abitanti di Onna, ogni sera, mentre consumano la cena, sgranano il loro rosario di sciagure, e danno principio al racconto di come si è salvato chi è rimasto e di come se ne sono andati gli altri, quelli che non ce l’hanno fatta. Non solo a Onna, ogni paese ha il suo lungo elenco di miracoli e disgrazie. Racconti che passano di bocca in bocca, di pianto in pianto, voci di un’odissea popolare che aiuta a lenire i dolori e a far catarsi delle sofferenze.

Il don s’è salvato quella sera in mutande, gettandosi dalla finestra del secondo piano. Quell’uomo s’è svegliato di notte perché il neonato piangeva per il mal di denti, ha imprecato e l’ha messo nel letto accanto a sé, il giorno dopo ha ritrovato nella culla un pezzo di calcestruzzo, tanto grande quanto il piccolo giaciglio. L’arcivescovo stava poco bene, quella notte, e si è alzato per andare in bagno e poi in cucina. La camera da letto è crollata, lui s’è salvato. Quell’uomo di ottant’anni è rimasto per due ore a urlare “aiuto” perché tutta la sua casa è crollata, tranne il pavimento del suo letto.
Quella vedova s’è salvata perché si sono aperte le ante dell’armadio che hanno sorretto l’architrave. Lei ha fatto in tempo a vestirsi («mi sono infilata persino le calze») e uscire, mentre intorno a lei piovevano pietre.

Poche bestemmie, tanti grazie
Dicono gli esperti che il terremoto è durato trenta secondi, di cui tre ad intensità diabolica. Tantissimi. O pochissimi, a vedere le macerie. La gente, quella notte, ha scavato a mani nude, dentro un buio attutito solo dalla luna piena. Sabrina ha telefonato al fratello che fa l’infermiere all’ospedale san Salvatore, terremotato anch’esso. «Vai a vedere», l’ha supplicato. Il fratello è corso a Onna, il paese dei genitori. Ha scavalcato le macerie e ha iniziato a frugare tra i detriti. Ad un certo punto, tra i sassi, illuminata dalla luna piena, ha visto una mano e ha riconosciuto «la mano di mamma». Ha scavato e l’ha salvata. La donna era prona col volto verso il materasso che l’ha aiutata a respirare. «Papà, invece, è morto», dice Sabrina che abita a Fossa, paese vicino a Onna, ma che oggi vive nella tendopoli del paese natale perché «quello che mi aiuta è stare insieme alla mia gente. Se alzo il capo vedo amici che come me hanno perso un fratello, un figlio, un genitore. Qui io posso piangere e ridere, liberamente».

Chi oggi è alloggiato negli alberghi sul litorale vuole tornare. Alberghi a cinque stelle, con tutti i comfort, ma lontani dal dolore e dagli affetti. Chi è in albergo vuole tornare e andare a vivere in quelle tende in cui, alla sera, il vento freddo s’intrufola sollevando un poco gli angoli. Perché stare lontani significa immaginare, e disperarsi. Stare vicini, invece, significa condividere il dolore, e capire. Ha detto il grande romanziere Eugenio Corti che gli abruzzesi hanno «incarnate virtù virili bibliche e omeriche» e sono queste le caratteristiche di un popolo poco incline al lamento e alla rivendicazione. Chi girasse per le tendopoli si accorgerebbe che, diversamente da quel che ha voluto far credere AnnoZero, la parola che più ritorna nei discorsi attorno ai fuochi della sera non è la bestemmia a Dio o allo Stato, ma è la parola «grazie».

Grazie alla protezione civile, grazie ai vigili del fuoco, grazie alla Misericordie, grazie agli alpini. C’è gente che tutto quel che ha è il paio di mutande e le ciabatte che indossava la notte del drago. Non c’è più la casa, non c’è più il lavoro, non c’è più tuo fratello. «E quando non hai più la casa coi muri, ti rendi conto che la tua casa è la tua gente, la tua comunità, i tuoi amici», dice Sabrina.

Dormire con le scarpe e il berretto
A pochi chilometri dal centro dell’Aquila sorge San Marco di Preturo. In paese le case contano lievi danni, se paragonati a quelli di altre zone. Ma le persone hanno paura a rientrare sotto il proprio tetto. «Ho recuperato qualche coperta – racconta una donna – ma ho lasciato tutte le finestre e le porte aperte, per avere un’immediata via di fuga».

Il campo è “autogestito”. Silvio e Angela raccontano di come una piccola comunità molto coesa s’è presa cura dei suoi figli. «A Pasqua abbiamo fatto i quadrucci». A San Marco la gente prepara la colazione, il pranzo e la cena, accudisce i propri anziani, organizza giochi nel prato per i bambini, il torneo di bocce, il rosario al pomeriggio. «A quelli della protezione civile l’abbiamo detto subito: noi ce la facciamo, andate ad aiutare gli altri, hanno più bisogno di noi». La notte nelle tende si dorme col cappello in testa e le calze di lana grossa, qualcuno con le scarpe perché la febbre della paura fatica ad andare via, anche se sopra la testa non hai il grigio calcestruzzo, ma una tenda azzurra. «La solidarietà è stata eccezionale», confermano in coro. E gli aiuti sono ben visibili ovunque, anche nel campo gestito dalla Coldiretti sulla strada che collega Onna con Fossa. Qui arriva ogni ben di Dio da ogni dove. Bottiglie d’acqua, saponi, bagnoschiuma, lamette da barba, mele trentine, parmigiano reggiano, grembiuli, pennarelli, passeggini, mangime per animali, mutande, calze, ferri da stiro, persino tre trattori e pacchi e pacchi di pannolini. E’ il frutto della generosità di aziende e privati per i terremotati d’Abruzzo. La gente entra e cerca quel che le serve. Come in un immenso magazzino all’aperto, rovista, sceglie, prova, porta via. Tutto gratuito. Anche se – arcana è l’indole umana – la notte qualcuno è entrato per rubare ciò che avrebbe avuto gratis di giorno. Ma se si chiede qual è l’articolo più richiesto, tutti rispondono all’unisono: «Cercano sicurezza, qualcuno con cui parlare, qualcuno che li stia ad ascoltare».

I promessi sposi terremotati
Giustino Parisse, giornalista del quotidiano Il Centro, ha perso i due figli a Onna la notte del terremoto. Con un coraggio che, confida, nemmeno lui sa da dove possa venirgli, ha descritto sul suo giornale la via crucis capitatagli. Ha parlato con nostalgia dei nomi dei vicoli che non ci sono più, via dei Calzolai, via Oppieti, via della Ruetta. Degli odori delle stalle, che hanno smesso di farsi sentire. Dei due figli, che mentre veniva giù il mondo piangevano «papà, moriamo tutti». Ma Giustino ha anche delicatamente parlato delle «tante immagini della Madonna. Tutte sono rimaste appese ai muri. Nessuna è stata trovata per terra». E delle campane, che sono state recuperate, sotto i detriti del campanile.

Tornare a sentire le campane vuol dire molto per gli sfollati; vuol dire che c’è ancora qualche chiesa che non è sbriciolata al suolo. «A Pasqua ho sentito suonare quelle di San Pio X», racconta Valentina. Valentina si sposerà con Francesco il 6 giugno. La notte del drago erano a Pescara, a firmare le carte per le nozze. «La chiesa in cui dovevamo sposarci – racconta Francesco – non è più agibile, così come il ristorante. Siamo precari nel lavoro, perché ad entrambi scade il contratto a maggio, però abbiamo deciso di sposarci lo stesso all’Aquila perché ci siamo chiesti: dove sta la nostra certezza? Lei è la mia certezza, i miei amici sono la mia certezza. Vogliamo che lo vedano anche gli altri».

Altrimenti il mio fratellino si spaventa
Francesco ha accompagnato Valentina a recuperare le sue cose al centro dell’Aquila. Ai bordi della città stanno i posti di blocco dei vigili del fuoco. La mattina presto la gente si mette in fila con grandi valigie rigide, ordinati come le rondini in partenza sui fili delle luce. Poi attende di essere chiamata e, scortata, ritorna alle macerie della casa, cercando di recuperare quel che può. Vestiti, coperte, effetti personali.

Valentina ha scoperto che la porta della sua camera era bloccata da un armadio. Fosse stata lì, quella sera, quella sarebbe stata la sua tomba. «A noi ci ha salvato il matrimonio», dice Valentina, la promessa sposa. A qualche metro dalla casa di Valentina sorgeva la Casa dello studente, tristemente famosa perché è stata l’assassina di una quarantina di giovani vite. Don Luigi, il giovane parroco dell’università che oggi gira per tendopoli («la curia ha pregato ogni sacerdote di stare vicino ai propri fedeli. Ma i miei sono studenti fuori sede rientrati a casa, oppure sono sottoterra»), ricorda che la notte del terremoto «i ragazzi sono scappati fuori dalle camere e ci siamo ritrovati sulla buia piazza del duomo. Ci siamo contati, chi manca?

Qualcuno, a suo rischio e pericolo, è rientrato per cercare chi mancava. Poi abbiamo scavato tra i detriti alla ricerca di una famiglia che abitava lì vicino. Il padre e la madre avevano fatto scudo col proprio corpo ai due figli, di 7 e 10 anni, salvandoli. Il maggiore mi ha chiesto se erano ancora vivi. Non sapevo che dire, ho inventato qualche storia poco plausibile, sono scoppiato a piangere. Il bambino ha capito e ha pianto – di un pianto disperato – per tre minuti, nel silenzio della piazza. Poi ha smesso di colpo, perché “altrimenti il mio fratellino si spaventa”. Quindi mi ha detto “ti ringrazio di essere qui, così puoi benedire il papà e la mamma”».

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