Il welfare che va in pensione

In Svezia l'esplosione di tasse e disoccupazione demolisce il mito dello Stato sociale dalla culla alla tomba Mezza Europa, Italia in testa, avanza a grandi passi verso il baratro da cui Stoccolma cerca di uscire

La svendita abbia inizio. Quello lanciato attraverso le colonne del Financial Times del 29 novembre dal premier svedese Fredrik Reinfeldt, infatti, non era un appello al mercato ma un vero e proprio grido d’allarme: Stoccolma dà il benvenuto alle aziende straniere che vogliano lanciare offerte sulle aziende a partecipazione statale che il governo di centrodestra intende privatizzare. Una torta da circa 30 miliardi di euro divisa in partecipazioni azionarie in 57 differenti compagnie, tra cui Nordea, la più grande banca del paese controllata al 19,5 per cento; TeliaSonera, l’azienda di telecomunicazioni partecipata al 45,3 per cento; Omx, l’operatore della Borsa di Stoccolma con il 6,7 per cento e la Sas, la compagnia aerea di bandiera di cui lo Stato detiene il 21,4 del pacchetto azionario oltre a una quota minoritaria ma interessante nella V&S, marchio che commercializza la vodka Absolut e che ha già suscitato gli appetiti dell’australiana Constellation Brands e la francese Pernod-Ricard.
Si tratta di una strategia di sell-off che nelle intenzioni dell’esecutivo dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 16,6 miliardi di euro, soldi necessari all’abbassamento delle tasse promesso durante la campagna elettorale e che ha portato il centrodestra al governo lo scorso settembre dopo dodici anni di dominio socialdemocratico. Una decisione, quella di Fredrik Reinfeldt, che ha già suscitato le proteste della Landsorganisationen (Lo), la sigla che riunisce 15 associazioni sindacali e rappresenta quasi due milioni di lavoratori svedesi, pronta a scendere in piazza il prossimo 14 dicembre: nel mirino della protesta la politica di “svendita” dei beni di Stato, il rischio occupazionale che ad essa consegue e soprattutto la decisione di tagliare i sussidi di disoccupazione.

Una blue revolution in salsa vichinga
Si scende in piazza per difendere il più longevo e fuorviante dei totem europei: il munifico welfare scandinavo e svedese in particolare. Per anni, infatti, il sistema di protezione sociale basato sull’alta tassazione in cambio di uno spettro pressoché womb-to-tomb (dalla culla alla tomba) delle prestazioni sociali è stato dipinto come la risposta della socialdemocrazia più illuminata – e nobilitata dal sacrificio personale dell’ex premier Olof Palme – al “bieco” liberismo friedmaniano di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. I frutti di questa logica, oggi, sono sotto gli occhi di tutti e hanno reso indispensabile una blue revolution in salsa vichinga per evitare il collasso totale del sistema-paese.
Il numero di persone oggi occupate in Svezia è più basso del 6 per cento rispetto al 1990 mentre negli Stati Uniti – in rapporto allo stesso periodo – è aumentato del 20 per cento. Ma questo non basta: in termini diretti il tasso di occupati è più basso anche del 1980, per trovare un termine di paragone bisogna tornare indietro agli inizi degli anni Settanta mentre per quanto riguarda il settore privato il termine di paragone temporale più calzante è il 1951. Attualmente il tasso di disoccupazione svedese è del 5-5,5 per cento ma questo numero è ampiamente impreciso poiché include soltanto una minima parte di cittadini che lo Stato mantiene attraverso i sussidi senza che lavorino: a tal fine la Svezia ha inventato nel corso degli anni di esecutivi socialdemocratici la cosiddetta “attività politica per il mercato del lavoro”, una sorta di lavoro socialmente utile ammantato di finalità intellettuale il cui unico scopo era proprio quello di abbassare il tasso di disoccupazione ufficiale. Se ignoriamo questo escamotage e calcoliamo questi non-lavoratori come tali il tasso reale sale già all’8 per cento. Ma se a questo novero di persone uniamo anche i pensionati-baby e le persone che vivono con sussidi statali per malattia e invalidità, il dato sale al 25 per cento, una quota da repubblica ex-sovietica: basti pensare che il numero dei pensionati-baby è di 540 mila unità, più del doppio del numero dei disoccupati ufficiali.

Eurostat lancia l’allarme
Infine a incidere sul sistema c’è la criticità rappresentata dagli immigrati che gravano, spesso e volentieri grazie a benefit statali e senza lavorare, sul sistema di protezione sociale gonfiando a dismisura le fila dei senza lavoro, visto che il tasso di disoccupazione tra i cittadini provenienti da paesi non occidentali è del 50 per cento. Ma il declino del modello di welfare statalista svedese non rappresenta, purtroppo, un’eccezione all’interno del panorama europeo, visti i risultati presentati da Eurostat nel suo ultimo report dedicato alla protezione sociale nell’Unione Europea. Il lavoro condotto dalla ricercatrice Alexandra Petrasova rappresenta un vero e proprio pugno in faccia al modello europeo di Stato sociale, un atto di accusa che soltanto la sordità interessata dalla classe dirigente può fingere di non sentire.
Un dato su tutti spiega il livello del baratro: nel 2003 l’Europa a 25 ha avuto una crescita della spesa per la protezione sociale tale da portare il dato percentuale medio sul prodotto interno lordo al 28 per cento. A farla da padrone, come ovvio, i paesi del nord Europa con l’esclusione dell’Irlanda (che stanzia il 16,5 per cento del Pil e che non a caso è protagonista di un rally di crescita senza precedenti): l’incriminata Svezia è a quota 33,5 per cento; la Finlandia al 26,9 per cento; la Gran Bretagna al 26,7; la Danimarca al 30,9; l’Olanda al 28,1; il Belgio al 29,7 e la Polonia al 21,6. Più limitata, per ovvie ragioni, la spesa nelle repubbliche ex-sovietiche con l’Estonia al 13,4 per cento sul Pil; la Lituania al 13,4 e la Lettonia al 13,6. Scendendo più a sud e toccando il cosiddetto “blocco fondatore” dell’Unione le cose non vanno meglio. Anzi. La Francia è al 30,9 per cento; la Germania al 30,2; l’Austria al 29,5; l’Italia al 26,4; la Grecia al 26,3 e il Portogallo al 24,3 per cento. Unica eccezione – a parte il blocco dell’Est composto da Repubblica Ceca (20,1 per cento), Slovacchia (18,4) e Ungheria (21,4) – è la Spagna, nazione emergente a livello economico grazie alle riforme volute da José Maria Aznar che José Luis Rodrìguez Zapatero ha avuto l’intelligenza di non cancellare seguendo le orme dell’altro grande riformista europeo, quel Tony Blair che salito al potere si guardò bene dal mettere mano al piano di riforme portato a termine da Margaret Thatcher. Il dato di Madrid è infatti in totale controtendenza con i suoi omologhi, assestandosi al 19,7 per cento; una percentuale certamente non bassa ma sicuramente più in linea con il corso liberista irlandese che con le riforme a metà della Gran Bretagna.

La sordità interessata dei governi
Ma a gettare un velo di inquietudine sul futuro dell’Europa, del suo sistema di Stato sociale e soprattutto sulle sorti che attendono al varco l’Italia ci pensa la tabella numero 4 del report di Eurostat, riprodotta in queste pagine: ovvero, la divisione per voci della spesa di protezione sociale nei vari paesi. Il nostro paese spende il 61,8 per cento del totale investito in protezione sociale in pensioni; il 25,7 in indennità di malattia; il 6,4 in benefit per invalidità; il 4,1 per aiuti alla famiglia e all’infanzia; l’1,8 in indennità di disoccupazione e lo 0,2 per cento per edilizia popolare e lotta all’esclusione sociale. L’ultimo rapporto Eurostat conferma quindi l’anomalia italiana in seno a un sistema europeo già di per sé non in perfetta forma. Il nostro paese ha speso nel 2003 per il welfare in totale un po’ meno della media europea – il 26,4 per cento del Pil rispetto al 28 dell’Unione a 25 – ma se questo valore viene corretto rispetto al potere d’acquisto appare in linea con gli altri paesi. Ma l’87 per cento del totale, in Italia, è assorbito da pensioni e sanità contro una media europea, per queste due voci, del 73 per cento. Se si aggiunge anche la spesa per le indennità di invalidità (6,4) si raggiunge quasi il 94 per cento: pressoché la totalità dei fondi messi a disposizione.
Spese insostenibili, quindi, che lasciano le briciole alle tanto sbandierate politiche in favore della famiglia, per la lotta alla disoccupazione e all’esclusione sociale dei soggetti a rischio o disagiati. Nessuno – governo, sindacati e Confindustria – sembra avvertire il collasso imminente: forse è il caso che qualcuno li avverta in tempo. La Svezia insegna, basta leggere il Financial Times.

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