Il sopravvissuto di “Alive”: «Un miracolo, vivi perché eravamo uniti»

La testimonianza di Roberto Canessa, uno dei 16 superstiti dell'Air Force Flight 571, che nel '72 si schiantò sulle Ande. «Mangiare i miei compagni morti non è stata la cosa peggiore»

«Ero sopravvissuto e non riuscivo a crederci. Ero tutto intero e pensai: adesso arriveranno la polizia e l’ambulanza. Uscii dall’aereo spezzato e sentii un silenzio incredibile: eravamo in mezzo alle montagne, nessuno sarebbe arrivato a salvarci». Così Roberto Canessa ricorda il terribile momento in cui si rese conto che il loro aereo era caduto sulle catena montuosa sudamericana delle Ande «e che quella era la realtà e nessuno ci avrebbe svegliato da quell’incubo».

LA STORIA. Oggi l’ex giocatore uruguayano di rugby ha 63 anni ed è tra i 16 superstiti dell’Air Force Flight 571, che il 13 ottobre del 1972 si schiantò sulle Ande. Dei 45 passeggeri, in maggioranza membri della squadra di rugby Old Christians Club, 12 morirono nello schianto, sei nei giorni successivi e 11 a causa della mancanza di cibo e delle durissime condizioni di vita a 3.600 metri e 30 gradi sotto lo zero. I superstiti furono salvati dopo 72 giorni, il 23 dicembre 1972, dopo che Canessa e un compagno riuscirono a dare l’allarme in seguito a una scalata delle Ande durata 10 giorni.

IL LIBRO. «Sulle montagne, con attorno i miei amici morti e sapendo di essere il prossimo sulla lista, ho realizzato quanto è fragile la vita umana. Da allora mi godo molto di più la vita», spiega alla Bbc Canessa, oggi chirurgo pediatra e autore del libro Dovevo sopravvivere, appena pubblicato in America del Sud. «La mia prima reazione fu quella di aiutare i miei amici e consolarli, altri piangevano, altri cercavano di capire chi era vivo e chi morto. Vedendo come tanti pensavano solo a spendersi per gli altri, mi sono reso conto che gli esseri umani quando materialmente non hanno più nulla, riescono a compensare spiritualmente e diventare forti».

MANGIARE CARNE UMANA. La storia di Canessa e compagni, raccontata anche nel film del 1993 Alive – Sopravvissuti, è diventata famosa soprattutto perché per salvarsi hanno dovuto mangiare i cadaveri degli amici. Canessa fu il primo a farlo. «All’inizio abbiamo ingoiato dentifricio, poi sempre più affamati l’istinto ci diceva che dovevamo nutrirci. Abbiamo pensato di mangiare le cinture di pelle e le suole delle scarpe, ma sapevamo che saremmo stati avvelenati dai trattamenti chimici. Quindi, dopo nove giorni, mi è venuto in mente che potevamo nutrirci della carne dei nostri amici morti. In tanti mi hanno detto: “No, non siamo cannibali” e anche per me l’idea era ripugnante, un’umiliazione. Poi ho riflettuto: “Se fossi morto, sarei contento che il mio cadavere venisse usato per questo motivo”. Forse era meglio morire di fame, ma la decisione l’ho presa quando rimuginai le parole di mia madre: “Se i miei figli muoiono, anch’io morirò di tristezza”. Allora ho mangiato. E non mi è successo niente. E poi è diventata una cosa normale».

«SENSO DELL’UMORISMO». Ma «mangiare la carne umana non è stata la parte peggiore di quell’esperienza, perché era solo un guadagnare tempo. Continuavamo ad essere in mezzo alle montagne». Sopravvivere era un’impresa ma tra i superstiti si sviluppò un rapporto particolare: «Non abbiamo mai perso il senso dell’umorismo e ogni volta che ci veniva un pensiero triste ce lo tenevamo per noi, ogni volta che ne avevamo uno allegro lo condividevamo subito con i nostri compagni. C’erano litigi, eravamo molto irritabili e sotto stress, ma poi ci perdonavamo a vicenda e ci tiravamo su di morale».

«TANTO DOBBIAMO MORIRE». Come quella volta che «uno di noi cominciò a camminare a piedi nudi sulla neve e un altro gli disse: “Cosa stai facendo? Ti congelerai” e lui rispose: “E chissenefrega, tanto dobbiamo morire in ogni caso”. Allora un altro gli sfregò i piedi con le mani e gli infilò le calze. Insomma era così: ci aiutavamo a vicenda. Ma io in molti momenti ho anche provato invidia per i morti, perché la loro agonia si era conclusa. Poi però ho capito che avevamo solo la nostra vita e ho promesso a me stesso di conservarla a prescindere da quello che sarebbe successo».

IL BARBECUE. La cosa più importante era non perdere la speranza e rimanere legati alla realtà: «Usavamo dei trucchi per sopravvivere: ogni piccolo dettaglio era una fune lanciata verso il mondo per tenerci ancorati alla vita. Uno di noi un giorno se ne uscì dicendo che era il compleanno di sua sorella e che avrebbe fatto un barbecue e cucinato salsicce e io gli risposi: “Taci, perché moriremo qui e tu parli della tua stupida sorella e di stupide salsicce”. Lui mi gridò contro: “Stai zitto tu, noi sopravviveremo e quando torneremo non ti inviterò al mio barbecue”».

IL DIO DELLE MONTAGNE. Nulla è stato più come prima nella vita di Canessa. Una volta tornato a casa, dopo aver proseguito la carriera da rugbista, si è sposato, ha avuto tre figli e ha intrapreso la carriera di chirurgo pediatra per salvare altre vite. Anche la sua relazione con Dio è cambiata «drasticamente: fino a quel momento Dio per me era qualcuno che ti diceva non uccidere, non mentire, non rubare. Era il Dio dei “no”, invece sulle montagne, quando guardavo al cielo e pregavo “Dio, aiutami”, ho conosciuto un Dio diverso, uno che vive fianco a fianco con te. Siamo sopravvissuti per miracolo, ma anche perché eravamo uniti».

@LeoneGrotti

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