Il popolo dell’io

Del concluso Meeting di Rimini resta quello che anche i giornali della borghesia “illuminata” non hanno potuto ignorare: lo spettacolo di un popolo vero in azione

Dio ci scampi dai commenti di chiusura sul Meeting di Rimini. Un test infallibile per scoprire quanto sia presuntuoso un giornalista italiano è fargli scrivere un articolo sul tema “bilancio del Meeting di Rimini appena concluso”. Dal grado di sicumera con cui trae le sue conclusioni e pontifica su “dove va Cl” (quest’anno tutti a dire che andava a sinistra, ma alla fine anche gli irriducibili dell’Europa e dell’Unità devono essersi resi conto di aver preso la solita “sòla”) potrete capire quanto sia lontano da una posizione umana (e professionale) corretta nei confronti della realtà. Non perché l’happening di Rimini e Cl siano delle cose enormemente complicate, ma per una questione di metodo: il Meeting è un incontro fatto di tanti incontri, non solo nel senso di abbondanza di tavole rotonde, faccia a faccia, mostre, ecc., ma nel senso che gli incontri sono tanti quanti sono i visitatori e gli ospiti del Meeting che interagiscono per una settimana, e l’incontro è una realtà ontologica personale, non un oggetto misurabile con categorie più o meno scientifiche. Il bilancio generale di una realtà così lo può fare soltanto Dio, mentre ogni singolo potrà tentare di tirare il suo bilancio personale.

LA PALOMBELLI FOLGORATA SULLA VIA DI RIMINI
Tutto quel che si può fare, perciò, è guardare al Meeting come evento con le categorie appropriate: un evento si racconta e si descrive, e così lo si fa parlare da sé. Partendo, per semplificare il lavoro, dalla descrizione che di esso ha fatto uno degli organizzatori, il presidente uscente della Compagnia delle Opere Giorgio Vittadini: «Il Meeting 2003 è stato un’esperienza di popolo, che ha comunicato la sua ricerca della felicità e, dal punto di vista politico, un luogo da cui si alza la proposta di una “bicamerale sociale” ai riformisti dei due schieramenti». L’approfondimento della seconda parte della dichiarazione imporrebbe di scendere sul terreno delle interpretazioni e dei pronostici. Noi invece vogliamo restare su quello dei fatti, che è il piano della prima parte. Quel che dice Vittadini è talmente vero che, giunti alla XXIV edizione, anche la borghesia illuminata rappresentata dal Corriere della Sera si è accorta con stupore e un po’ di soggezione che nell’Italia socialmente sfilacciata del 2003 un popolo c’è ancora, ed è proprio quello che si coglie in azione al Meeting. Barbara Palombelli, che a Rimini ha parlato ad un incontro di presentazione del libro di don Giussani Il Miracolo dell’ospitalità, ha scritto che mentre «in tutti i partiti dalla destra alla sinistra le platee sono formate da centinaia di persone con capelli grigio-bianchi, chiamate ad ascoltare leader che parlano di tutto fuorché di vita quotidiana», il “popolo del Meeting” appare sotto forma di «migliaia di donne e di uomini veri, tutti molto giovani, circondati da un’allegra confusione di passeggini e carrozzelle per disabili mescolati con naturalezza… Al Meeting è fortissima la presenza dell’altra identità del popolo italiano. Non siamo soltanto tangentari, killer, pedofili, veline e cinici imbroglioni. Siamo anche i cittadini di un’altra Repubblica. Quella del volontariato, dell’associazionismo, quella dei tanti che non si rassegnano allo squallore di una società che rischia di fondarsi e di affondare parlando soltanto di denaro». E anche Dario Di Vico, che pure giudica Cl ancora troppo ideologica per i suoi gusti, ammette: «Cl resta un movimento “tipografico”. Spinge i suoi a consumare carta stampata, a leggere e a rileggere i grandi libri, a pubblicare mille fogli. Almeno qui l’opinione ce la si forma ancora come si faceva una volta, leggendo e ascoltando. L’argomentazione fa premio». L’importanza del fatto che cose come queste siano state scritte sul Corsera non sarà mai abbastanza enfatizzata. Potrebbe trattarsi di un vero e proprio spartiacque nella storia del costume e dell’autocoscienza della classe dirigente italiana. Per la prima volta la borghesia di sinistra del nostro paese rinuncia al monopolio della “superiorità etica” e accetta di condividerlo non con un’altra classe sociale e ideologica (per esempio la classe operaia organizzata nei partiti di sinistra), ma addirittura con un popolo (un’entità definita non dalla funzione sociale e dal progetto ideologico, ma dall’identità culturale e dall’appartenenza).

APPLAUDITI I TESTIMONI DELLA FRAGILITA’ UMANA
C’è il rischio che questi riconoscimenti insperati si traducano in abili strumentalizzazioni? No. Per la ragione che il popolo in questione non si considera definito dalla irreprensibilità morale. E non in ragione del diffuso luogo comune secondo cui i politici di area ciellina e gli imprenditori della Cdo non sono meno “squali” degli altri. A confessare inadeguatezza sono proprio le “punte di diamante” di quella che dovrebbe essere la “componente spirituale” del movimento. Sergio Massalongo, il priore dei benedettini della Cascinazza alle porte di Milano che hanno preparato la mostra più frequentata e citata del Meeting, quella su san Benedetto ed il suo ordine monastico, raccontando la storia della sua vocazione al cospetto di migliaia di persone, ha detto: «A un certo punto volevo lasciare l’abito. Avevo un giudizio su tutto ma non amavo nessuno. E cominciavo a trovarmi bene nel male». David Jones, applauditissimo capitano reclutatore dell’esercito americano da poco approdato alla fede cattolica attraverso Cl dopo aver sperimentato praticamente tutte le appartenenze religiose, ha messo a parte la vasta platea della sua crisi coniugale, esplosa proprio in coincidenza della sua scoperta della figura di don Giussani, «mio eroe personale», e dell’incontro con alcuni suoi figli spirituali. Anziché vacillare davanti alle ammissioni della debolezza umana, il popolo del Meeting ha mostrato enorme gratitudine per queste testimonianze, e non soltanto per il finale felice delle due storie, col ritorno del figliol prodigo alla casa paterna. Ma perché nel modo della comunicazione hanno rivelato il dna dell’appartenenza allo stesso popolo. Che, scartata l’irreprensibilità morale come già detto, non è neppure il riferimento a una memoria comune, come una battaglia di Kosovo Pole o la firma della Magna Charta. Quello del Meeting non è il popolo dei girotondini, i puri abilitati a far giustizia contro i corrotti, e nemmeno un’etnia tenuta insieme da una memoria storica. è, piuttosto, il “popolo dell’io”, il popolo di quanti si scoprono accomunati dall’aver incontrato, ciascuno individualmente, la risposta alla domanda di bene per la vita (“C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?”, il titolo del Meeting preso dal salmo 33) in una realtà umana segno della Grazia divina. Lo ha testimoniato a piene lettere Giancarlo Cesana nel corso dell’incontro “Perché sono felice di essere ebreo, cristiano, musulmano?”: «Mi hanno chiesto in tivù se io sia felice, ed ho risposto “sì, perché qualunque cosa succeda nella vita c’è un senso”. Non sono un temerario o un sentimentale: percepisco il senso della vita in un abbraccio concreto, quello di don Giussani, di mia moglie, dei miei figli, dei miei amici e compagni di lavoro. In esso percepisco la presenza di un terzo, colui che rende possibile questo abbraccio che si apre all’infinito Mistero che sorregge tutte le cose. Da qui nasce anche l’amore per l’altro essere umano: non si può amare l’uomo se non si ama Dio, sennò l’abbraccio è soffocante. L’abbraccio dell’amante vero è quello di chi percepisce nell’altro l’infinito a cui egli tende». Il popolo del Meeting è il popolo del compimento miracoloso del desiderio di felicità attraverso l’incontro col divino in forma umana. Si capiscono allora i vari “pallini” del Meeting.
Si capisce l’ossessione per l’educazione, per la pedagogia, che permea incontri e mostre. Le testimonianze personali, che attirano partecipanti più degli incontri politici, e gli itinerari delle mostre sono percorse da un unico leit motiv: non riduciamo il desiderio umano, lasciamoci guidare dalla sua dinamica e scopriremo che esso è desiderio di infinito, e questa è la premessa ineludibile di ogni discorso sulla felicità (nemmeno Francesco Alberoni potrebbe obiettare). Fra le tante mostre del Meeting, quella che ha espresso con più chiarezza questo contenuto è la mostra sulla felicità dei ragazzi di Gs, che non era nemmeno segnalata nel catalogo, ma che in pochi pannelli a forza di Eraclito, di Dante Alighieri (Il Convivio), di Montale e di citazioni di Giussani dimostra: primo, che i soldi spesi per mandarli a scuola non sono tutti buttati; secondo, che ogni uomo leale è in grado con la sola ragione naturale di svelare la truffa della felicità alla Muccino e rendersi conto che «solo un imprevisto può salvarci».

SI’ ALL’AMERICA, NO A QUESTA EUROPA
Si capisce l’intransigenza del Meeting, popolo e leader, di fronte alla questione delle radici cristiane dell’Europa da menzionare nella Costituzione europea: nonostante una lunga serie di autorevoli politici italiani e stranieri, compreso l’inossidabile Giulio Andreotti che del Meeting è parte integrante, abbiano insistito che è meglio non incaponirsi sulla forma e badare alla “sostanza”, i ciellini hanno ribadito che la Costituzione così com’è non va. E un autorevolissimo costituzionalista come Joseph Weiler, per di più ebreo praticante, è venuto a dare loro man forte spiegando che il riferimento al cristianesimo è addirittura “indispensabile”. Il problema non è una frasetta o il buffetto papale; il problema è che non si può negare o nascondere l’incontro che fa essere; non si può far passare per autonomo e autosufficiente ciò che è invece storicamente dipendente (l’Europa dal cristianesimo, appunto).
Infine, si capisce un po’ di più il “no alla guerra, sì all’America” con cui sei mesi fa i ciellini hanno mandato in bestia più d’uno. Ha detto Vittadini in apertura del mega-incontro che ha riunito Archie Spencer teologo battista, David Jones capitano dell’esercito degli Stati Uniti, Paolo Palamara, architetto italiano in Canada, mons. Lorenzo Albacete: «Sottolineiamo l’America come possibilità di libertà e di positività per noi e per il mondo. Senza ignorare i limiti: quando viene meno il senso del tutto, l’aspirazione alla libertà può decadere in infinita possibilità di massacro». Ha confermato Albacete: «La libertà americana è la libertà di cercare la libertà. Per questi io, portoricano spesso discriminato per la mia estrazione cattolica in un paese di cultura protestante come gli Usa, dico sì alla passione dell’America per la libertà, anche quando dico no a certe sue particolari concezioni della libertà. Ma chi ha visitato la casa di Thomas Jefferson in Virginia e ammirato gli spazi aperti che la circondano, non può non identificarsi con la passione americana per la libertà. Che non esisterebbe senza una storia nazionale imperniata sul cristianesimo protestante». Conclude Vittadini: «Siamo tributari all’America di un’esperienza della libertà come dipendenza da Dio. L’attenzione di don Giussani per la teologia protestante americana (al Meeting è stata pure organizzata una tavola rotonda sul relativo libro che Giussani scrisse negli anni Cinquanta – ndr) ha fatto di Cl un movimento incentrato sulla libertà dell’io anziché sulla potenza organizzativa». E pensare che negli anni Settanta scrivevano che Cl era figlia della Cia…

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