Il pelo ( e il vizio) di Einaudi

Censurato dalla casa editrice torinese, un grande scrittore polacco si prende la rivincita in libreria. Dove la monumentale opera omnia di Salamov non si vende senza la sua introduzione pubblicata da un piccola casa editrice e, sempre nel suo nome, Gustaw Herling, Adelphi esce con i racconti del classico russo. Incontro con il protagonista della polemica editoriale dell’anno. Che manda a dire ai dirigenti dell’Einaudi: “Scopro ora, grazie a Tempi, che mi avete giocato un altro brutto tiro...”

Eccoli finalmente in libreria “I racconti di Kolyma”, prima edizione mondiale fuori della Russia dell’opera di Varlam Salamov, genio della letteratura di questo secolo e sopravvissuto ai Gulag sovietici (10 anni di lager – in aggiunta a un’altra mezza dozzina per sospetto trozkismo – solo per aver sostenuto, in privato, che il suo connazionale Bunin, scrittore riparato a Parigi e vincitore del Nobel per la letteratura nel 1936 era “un classico russo”). Opera monumentale di casa Einaudi che, stranamente, il libraio quasi ti impone di acquistare con il libricino “Ricordare, raccontare” dell’editrice L’Ancora, perché? “Perché è l’originale introduzione che poi l’Einaudi ha censurato”. Ecco dunque un caso esemplare che spiega come succede che “i manoscritti non bruciano” e, anzi, perché talvolta il piccolo rogo si trasforma in un boomerang, ovvero, nel caso (e nell’affare) editoriale dell’anno. Succede infatti che, andando in libreria, accanto alle 1300 pagine del Salamov einaudiano, accanto al ponderoso volume che avrebbe dovuto celebrare i nuovi fasti dell’illustre casa torinese e che invece è servito a “Ricordare, raccontare”, squadernare al pubblico taluni zdanoviani metodi editoriali dei suoi dirigenti, accanto al libricino dell’Ancora, da questa settimana si trova anche una pila di tanti bei volumi della Adelphi, la quale sfruttando abilmente il goffo incidente occorso alla concorrente, propone con lo stesso titolo (ma per lire 20mila, contro le 140mila dell’opera omnia einaudiana) una ristampa della lectio brevis dei racconti del russo infiochettata da una fascetta in sovracopertina che, senza citare la fonte, strilla una frase tratta dall’espunta introduzione di Gustaw Herling. Insomma, alla fine Salamov è costato all’Einaudi un trambusto che i manager torinesi avrebbero senz’altro voluto evitare. E che avrebbero sicuramente potuto evitare, se solo avessero fatto mente locale sul calibro e il carattere dello scrittore a cui loro stessi si erano rivolti con promessa (e pagamento anticipato del lavoro) che nessuno si sarebbe sognato di intervenire su un’introduzione a firma dell’ottantenne autore che, nell’anno 1951 e con la prefazione di Bertrand Russel, pubblicò “Un mondo a parte”, capolavoro della letteratura memorialistica e prima testimonianza diretta sui lager sovietici.

Ora Gustaw Herling siede di fronte a noi, nella sua casa di Napoli, pronto a raccontare come si gusta a caldo il piatto di una comprensibile vendetta editoriale.

Dunque, professore, si aspettava che il suo caso facesse tanto scalpore?

Parlando con lei, che conosco dai tempi in cui lavorava per Il Sabato di Roma, una ottima rivista, direi che si può fare un breve riepilogo di quello che è successo, della piccola guerra con Einaudi. Voglio dire innanzitutto io stesso sono rimasto sorpreso dall’interesse suscitato in Italia. Quando Goffredo Fofi mi ha detto, “Gustaw, sei diventato un caso nazionale!” ho detto, “no non sono un caso nazionale, ma ammetto che la discussione è stata molto vivace”.

E perché secondo lei?

Perché probabilmente sono andato a toccare il nervo della situazione politica e psicologica italiana. Vede, dopo la morte del cosiddetto “principe” degli editori, cioé Giulio Einaudi, è rimasta una casa editrice, di chiara fama, che non si capisce che orientamento prenderà. In effetti, la mia cosiddetta “guerra”, mi ha indotto a pensare che il gruppo della dirigenza Einaudi, dopo la morte del fondatore, ha veramente poca esperienza editoriale – non sa che pesci prendere – e politicamente è forse di orientamento vetero-comunista. Il che porta a situazioni paradossali rispetto alla realtà contemporanea. Quel che io ho detto nel dialogo con Piero Sinatti non costituisce infatti una rivelazione: ormai se ne parla su tutti i giornali. Ora, il fatto che un grande editore chieda una introduzione per il monumentale volume dei Racconti della Kolyma e la chieda a me – cosa che mi ha sorpreso, ho anche chiesto se non si fossero per caso sbagliati, ma il funzionario che mi ha contattato al telefono ha detto che sarei stato libero di dire tutto quello che volevo – per poi, dopo un anno, rifiutare quell’introduzione sotto forma di dialogo, adducendo motivazioni poco intelligenti – per non dire semplicemente stupide – è una cosa perlomeno strana. Tanto più che mi hanno addirittura pagato in anticipo, quindi sono costato una certa somma per il mio lavoro insieme a Piero Sinatti e la collaboratrice Anna Raffetto. E non voglio commentare qui le lettere dei signori Bersani e Bo, perché non voglio infierire. Quello che abbiamo detto nell’introduzione sono cose modeste, assolutamente evidenti per chi conosce la letteratura russa, e Salamov in particolar modo. Non avrebbero dovuto creare tutta la sorpresa che si avverte dal tono delle lettere che mi hanno scritto i dirigenti della Einaudi. Infatti non c’è nessun motivo per essere sorpresi. Se avessero un minimo di sale in zucca questi signori avrebbero capito che stavano per commettere un madornale errore. Comunque la nostra prefazione è stata ugualmente pubblicata. La cosa per me è finita e le dico quello che, secondo me, è una sorta di colpo di grazia: in questi giorni è uscito un volume dei Racconti della Kolyma presso Adelphi, una ristampa della vecchia edizione, più asciutto di quello Einaudi, con una mia frase in copertina, su una fascetta. Non si tratta della frase di qualche mio vecchio saggio su Salamov, ma una frase tolta dalla mia famosa prefazione. Non viene citata la fonte – per non offendere in modo eccessivo l’altro editore – ma è come se si dicesse: “quello che viene detto in quella prefazione va bene, per noi”. Non può esserci reazione più radicale, in un certo senso. Se c’è una specie di lutto nella casa editrice Einaudi, questo lutto si approfondirà dopo l’uscita di questo volume. Io lo considero un colpo di grazia nella nostra “guerra”.

Deve ammettere che in questa disputa tra Herling e la Einaudi gran parte degli addetti ai lavori si sono schierati dalla sua parte…

Sì, è vero, con mio grande piacere, tutti hanno più o meno preso le nostre parti. Ad esclusione di Cesare Segre che ha scritto un articolo dove dimostra di non capire molto della materia e dunque merita solo di essere cestinato. Comunque sullo stesso numero del Corriere della Sera è comparsa anche una breve dichiarazione di qualcuno che forse conosce un po’ meglio queste cose, Vittorio Strada.

Qual è a suo giudizio la ragione che ha fatto scattare la censura nei suoi confronti?

Credo che ai dirigenti dell’Einaudi abbiano dato fastidio in particolare le mie idee sui “gemelli totalitari”, di cui ho scritto anche in un lungo articolo sulla Stampa di Torino. Proprio questa mi sembra sia stata la grande offesa: mi sono permesso di mettere sullo stesso piano i campi di concentramento sovietici e i lager nazisti, spiegando anche il perché. E l’ho detto chiaramente: nei campi sovietici non c’erano i forni crematori, non si mandava la gente nelle camere a gas: il risultato era però il medesimo, anche se si uccideva lentamente, attraverso la fame, il lavoro massacrante e il clima. Infatti si voleva sfruttare al massimo il lavoro dei prigionieri. Proprio questo è quello che descrive Salamov. E chi è riuscito a sopravvivere tanti anni come lui – perché ricordo che Salamov ha vissuto nei Gulag per quasi 18 anni, laddove già dopo 2 anni i prigionieri erano allo stremo – è perché ha avuto la fortuna di imbattersi in un medico che si è preso a cuore il suo caso. Allo stesso modo è sopravvissuto Primo Levi in un lager nazista: hanno utilizzato le sue qualifiche professionali, per cui, in un certo senso, lavorava in condizioni privilegiate. E Levi è sopravvissuto: cosa che mi riempie di gioia perché lo considero un grande scrittore…

A propopsito di Primo Levi. Piero Sinatti ritiene che Einaudi l’abbia censurata soprattutto perché lei ha chiamato in causa criticamente autori sacri della casa torinese, come Primo Levi, appunto, Norberto Bobbio…

Ho citato Bobbio semplicemente perché, essendo il guru dell’intellighentia italiana, per anni e anni ha escluso questa parentela fra comunismo e nazismo. Negli ultimi tempi, l’annos corso mi pare, con una grande intervista sull’Unità, si è invece ricreduto e ha ammesso di essersi sbagliato. Ma è stato lui stesso a dirlo. Un’altra cosa incredibile, ridicola, è la polemica sulle critiche che avrei rivolto a Primo Levi. In effetti sono stato critico, dopo aver letto un documento che mi ha fatto avere Sinatti, e cioè la recensione di Primo Levi alla prima traduzione italiana di Salamov, pubblicata dallo stesso Sinatti. Era una recensione meschina, quasi da non credere che potesse essere stata firmata dal grande Primo Levi. Non capiva assolutamente la situazione di Salamov… Ma poi chi mi rinfaccia queste critiche? Proprio la casa editrice che ha respinto il primo libro di Levi, “Se questo è un uomo” per mano di Natalia Ginzburg, probabilmente in nome della “bella pagina”. Una cosa vergognosa.

Tornando al paragone tra il totalitarsimo nazista e quello comunista, ammetterà che non si tratta di una straordinaria rivelazione…

Certo che non lo è. Eccetto, parrebbe, che per i dirigenti della Einaudi. Se loro però vogliono vivere nel tempo presente, dovrebbero cambiare mentalità. Non devono semplicemente onorare la memoria di Giulio Einaudi che ha avuto la bella idea di pubblicare le opere complete di Salamov, ma fare quello che hanno fatto D’Alema e i suoi compagni, approfittando del fatto di vivere in un paese in cui i miracoli sono così diffusi, cambiare completamente i valori. Sarebbe utile che questi scandalizzati dirigenti Einaudi leggessero per esempio quanto appariva sul Manifesto di qualche giorno fa: nel 1969, un anno dopo l’invasione della Cecoslovacchia, durante il congresso comunista a Roma, era in atto una critica molto forte verso i compagni sovietici. Berlinguer era contrario a una pubblica presa di posizione però, in privato, davanti ai suoi compagni, ha detto che i comunisti sovietici erano dei “banditi”. “Banditi”, ha usato proprio questa parola. La stessa che da anni e anni usavo anch’io, ma sempre suscitando una specie di scandalo. Invece veniva usata anche da quello che secondo me è stato il più intelligente segretario comunista italiano. Allo stesso modo sarebbe molto utile ricordare quello che, subito dopo la rivoluzione, Trotzky ha detto parlando con Lenin: “Compagno Lenin, noi dobbiamo renderci conto che per fare il socialismo occorre servirsi del lavoro forzato”. Era il 1919 o il 1920.

C’è ancora, nella sinistra italiana che oggi si dice socialdemocratica, qualche imbarazzo della memoria?

Sembrerebbe, ma non è così. Se mi capita di fare una domanda a un ex-comunista che non può non sapere un certo fatto, mi guarda come se lo avessi offeso: “Io comunista?” È uno straordinario cambiamento, quasi un miracolo degno di Padre Pio. Semplicemente di certe cose non se ne parla più, eccezzion fatta per personaggi come Bertinotti e Cossutta. Loro sono fieri di chiamarsi comunisti e a volte agiscono come comunisti. Ad esempio quel che ha fatto Cossutta durante il bombardamento di Belgrado era un tentativo di aiutare gli ex-compagni sovietici. Lui è un comunista, ma non lo nasconde. Non dico che lo ammiro per questo, anzi mi è antipatico, ma almeno c’è una qualche dignità in questo dire: “Sono stato e sono comunista”. Non è che voglio rimproverare agli altri di essere cambiati: sono anzi contento che lo abbiano fatto, non sono un fanatico. Qualcosa però in realtà è rimasto.

Professore, c’è altro di cui vorrebbe riferire delle sulle tempestose relazioni con Einaudi?

Sì, vorrei che il pubblico dei lettori italiani scoprisse come ho scoperto io solo di recente quale sia la professionalità dei successori di Giulio Einaudi. La storia è questa. Più o meno due anni fa è venuto a Napoli un noto romanziere americano, Russell Banks che voleva fare una chiacchierata con me. Ha portato una giornalista di Le Monde che ha trascritto il resoconto di quel dialogo che è poi apparso su Le Monde e, successivamente, sulla Stampa di Torino. Solo adesso apprendo da Tempi (cfr.Tempi n°21, 3/9 giugno 1999, ndr) che una parte di questo dialogo è stato utilizzato da Einaudi, che è editore di Banks in Italia, come postfazione di uno dei libri dello scrittore americano. Ad essere sincero, mi è venuta voglia di consultare il mio avvocato… perché non mi hanno chiesto nessun permesso, non mi hanno pagato, non mi hanno nemmeno mandato il volume che contiene questa postfazione. L’ho saputo solo grazie al vostro straordinario servizio. Non mi sembra un modo di procedere molto prefessionale e credo che facendo un processo, potrei anche vincerlo. Ma la cosa più bella è che in quel brano riprodotto nel volume Einaudi c’è una frase del dialogo tra me e Russel Banks in cui si dice che il fascismo italiano e un’operetta confrontato col comunismo sovietico. Mi pare che questa affermazione sia una terribile offesa, e considerando che appare su un volume Einaudi è quasi incredibile.

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