Il grande Gatsby

A dieci anni dalla “rivoluzione” che generò Mani Pulite, la speculazione sulla lira e la svendita delle aziende di Stato, torna ad affacciarsi il fantasma della finanza d’assalto. Obiettivo, le banche italiane

Perché il 22 dicembre 2003, in piena esplosione dei crac Cirio e Parmalat, succede che il pool di banche creditrici del partito dei Democratici di Sinistra – capeggiato da Carisbo (gruppo San Paolo-Imi) con un credito di circa 30 milioni di euro, e costituito inoltre da Banca Intesa e Capitalia (creditrici ognuna per 21 milioni di euro) e Monte dei Paschi di Siena con un credito di circa 3,5 milioni di euro – raggiunge un accordo per il pagamento del debito complessivo con un’operazione “a saldo e stralcio” che prevede la cancellazione del 50% del colossale debito totale (circa 235 milioni di euro) del partito di Fassino e D’Alema?

Un 2003-2004 come il 1992-1993?
«Come mai – recita un’interrogazione rivolta il 22 gennaio 2004 dall’eurodeputato leghista Mario Borghezio al presidente del Parlamento di Strasburgo – questo trattamento di favore verso un partito politico in un periodo in cui azionisti e obbligazionisti di aziende legate con i suddetti istituti bancari stanno pagando sulla loro pelle la “finanza creativa” dei Tanzi e la disattenzione nel collocamento di “junk bonds” da parte di sportellisti poco svegli? Non le sembra una palese violazione del principio di libera concorrenza sancito dal diritto comunitario, vista la discrepanza di trattamento tra i Ds e i “normali” risparmiatori? Non le pare che la Bce dovrebbe un po’ tirare le orecchie al pio (e appisolato) Antonio Fazio, visto che in questa vicenda Bankitalia non ha garantito il rispetto delle norme di cui agli articoli 101 e 102 del Trattato dell’Unione Europea?».
«Chissà perché, mi sembra un film già visto», dice un grande ex ministro Dc, Paolo Cirino Pomicino. Sì, sembra un po’ “Memento”, pellicola tutta flash-back, dove l’aria che tira in questo principiare di 2004, ti riporta al 1993, l’anno di messa in mora del Parlamento sovrano. O al 1994, l’anno dell’eliminazione per via giudiziaria di Dc e Psi e della breve anomalia del Berlusconi I. O al 1995, l’anno del salvataggio per via giudiziaria della Dc demitiana e del Pci-Pds e conseguente loro investitura, sotto l’albero dell’Ulivo, a forze di governo. O ancora al 1996-2001, cinque anni di centro-sinistra e tre governi – Prodi, D’Alema, Amato – ad alta spremitura fiscale per portare l’Italia in Europa, per offrire molte garanzie ai raiders della finanza (vedi privatizzazioni di Seat Pagine Gialle e Telecom) e per garantire il solito e costante “controllo di legalità” sulle aziende del Cavaliere Nero. Mentre prosperano, lontano dai riflettori del quarto potere e di quello giudiziario, il grande shopping di aziende italiane da parte delle multinazionali e le gestioni allegre di aziende che finiranno come sono finite Cirio e Parmalat. E dunque: perché il quadro del sistema Italia in queste giornate di mezzo inverno del 2004 sembra maledettamente simile a quello di dieci anni fa?
Ma cosa accadde dieci anni fa, a cavallo tra il 1992 e la fine del ‘93? Niente di che, prese soltanto il via la svendita delle grandi aziende pubbliche italiane ai gruppi stranieri. Un’operazione inaugurata dallo speculatore internazionale George Soros che giocò contro la lira (Soros fu poi protagonista di un’indimenticabile cena newyorkese in compagnia di Massimo D’Alema, diventato nel frattempo, sul finire degli anni ’90, “massimo statista”) e ora riciclatosi come nemico implacabile di Bush (contro il quale ha messo a disposizione milioni di dollari in pubblicità pur di “cacciarlo da Washington”) e guru dei no global. L’operazione di spoliazione dell’Italia prese le mosse nella primavera del 1992 con una serie di avvenimenti-pilota: la crisi della Prima Repubblica e il successivo ciclone di Tangentopoli, le privatizzazioni, l’attacco alla lira da parte proprio di George Soros che grazie a quella incursione speculativa trasse guadagni pari al 560%.

Quell’esplosivo 1992
Il 23 maggio del 1992, la mafia uccise il giudice Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta. Su cosa stava indagando Falcone? Sui rapporti tra mafia, mondo degli affari e politica. Si, certo, ma non solo. Pochi giorni dopo la sua morte, infatti, Giovanni Falcone avrebbe dovuto incontrare il procuratore di Mosca, Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dall’ex Urss di somme ingenti di denaro nelle disponibilità del Pcus. A confermarlo fu, nell’autunno del 1999, lo stesso Stepankov durante una presentazione del libro L’oro di Mosca di Valerio Riva. Successe poi che tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono al collega e amico Paolo Borsellino: casualmente due mesi dopo anche Borsellino saltò per aria. Successe, sempre nella primavera di quello straordinario 1992, che il capo del Sismi (il servizio segreto militare), Luigi Ramponi, si profuse in un irrituale e non richiesto giudizio sulla politica interna: «O Dc e Psi si rinnovano, o sono destinati a morire», disse. Come è finita, lo si sa. Successe che il 17 marzo l’allora ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, lanciò un allarme contro i rischi di possibili attacchi che avevano come obiettivo quello di destabilizzare il quadro politico italiano: un allarme generico ma che lo convinse ad allertare tutti i prefetti. Sarà lo stesso Scotti, nel 1999, a raccontare la verità a Paolo Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo». Tutto successe nell’arco di tempo marzo-luglio 1992, in cui cominciò la cavalcata del pool di Mani Pulite e in cui si verificarono gli attentati contro Falcone e Borsellino. Successe che nel mese di settembre, ad una cena, i capi di Polizia e Carabinieri confermarono che Vincenzo Scotti fece bene a lanciare quell’allarme. Successe che, scrive nero su bianco (e senza che ad oggi gli siano pervenute querele o smentite) il “Geronimo” Pomicino nel suo libro Strettamente riservato, sul finire del mese di maggio lo stesso Scotti fu informato dal Sisde che a notte fonda due camion stracarichi di documenti erano partiti da Botteghe Oscure.

Ci sono modi e Moody’s per (s)vendere
Nel settembre ’92, quasi in contemporanea con la nomina di Giuliano Amato a premier, l’agenzia di rating Moody’s si accanì particolarmente contro l’Italia. Senza un motivo apparente, non appena il dottor Sottile giunge a Palazzo Chigi, Moody’s retrocede i Bot italiani alla serie C della credibilità: perché? Beh, che il dissesto dei conti pubblici fosse reale non serviva un genio per dirlo ma lo era anche due anni prima, nel 1990, quando l’agenzia di rating ci metteva ancora in serie A. Ma Moody’s non tarda a dare la sua versione: la sua valutazione negativa era motivata dalle non sufficienti garanzie italiane in fatto di privatizzazioni dei beni pubblici. Purtroppo finire sulla sua lista nera significa che gli speculatori internazionali si precipitano per disfarsi dei Buoni del Tesoro del paese unwilling. Così accadde. Per contrastare il crollo, l’Italia si comportò sciaguratamente di conseguenza: offrì tassi di interesse più alti sui suoi Bot al fine di ingolosire gli speculatori. Si sa, un rischio maggiore lo si affronta più volentieri a fronte di una prospettiva di maggior guadagno. Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca capo di Bankitalia, non perse tempo: ad ogni brutto voto di Moody’s aumentò i tassi dei Bot, ottenendo lo strepitoso risultato che ad ogni 1% di aumento corrispondeva un esborso aggiuntivo di 17mila miliardi di vecchie lire per i contribuenti italiani. Per “salvare la lira”, Ciampi spese invano 40mila miliardi e nonostante questo sforzo la svalutazione della nostra moneta si attestò sul 30% del valore. L’Italia finì fuori dallo Sme. E, in onore dell’italica capacità di saper riconoscere i talenti, Ciampi fu chiamato a sostituire Giuliano Amato a Palazzo Chigi.

La gita sul Britannia
Bisognava privatizzare, di corsa, tutto. Lo chiedeva Moody’s, non si poteva scherzare. Prima del capitombolo della lira, Giuliano Amato non perse tempo e cominciò dalle basi: ovvero cercò consulenti e partner per far partire la “rivoluzione liberale”. E come consulenti il governo italiano scelse le tre maggiori banche d’affari di Wall Street: Goldman Sachs, Merrill Lynch, Salomon Brothers. Il trio delle meraviglie divenne consulente del governo italiano per le privatizzazioni: peccato che sotto questa veste molti speculatori internazionali vennero a conoscenza di informazioni riservate sulle imprese da privatizzare. In molti sapevano, in molti erano ingolositi da questi “bocconi” ma c’era un problema: come fare tombola, ovvero accaparrarsi le aziende senza pagarle per quello che era il loro reale valore? Una bella svalutazione della lira rispetto al dollaro sarebbe stata la benvenuta, soprattutto da parte di chi disponeva di tanti dollari per acquistare le aziende. Guarda caso, così accadde: si cominciò con Moody’s e si finì al largo di Civitavecchia, dove, il 2 giugno 1992 a bordo del panfilo Britannia, partito dal porto laziale e in navigazione lungo le coste della Sicilia, si svolse una riunione del gruppo Bilderberg. Oltre ai Reali britannici, tra i navigatori a bordo del Britannia c’erano i rappresentanti della Barclays Bank, della Warburg, della Merril Lynch, della Salomon Brothers, della Goldman Sachs. Fra gli italiani, erano presenti: Mario Draghi, direttore delegato del ministero del Tesoro; Riccardo Galli, dell’Iri; Giovanni Bazoli, dell’Ambroveneto; Antonio Pedone, del Crediop; Beniamino Andreatta; dirigenti dell’Eni, Agip, Mediobanca, Comit, Generali e Società autostrade. Il giorno dopo, al Tg1, il giornalista Maurizio Losa annuncia che a Milano «ora, nell’inchiesta sulle tangenti, c’è anche il nome di Bettino Craxi».

Il no di Draghi. E quel fantastico ‘93
Uno dei pochi a dire “no” all’operazione Britannia fu il direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, lo stesso che nel 1999 si trovò ad opporsi a Massimo D’Alema al momento della scalata di Colaninno a Telecom, quando il Tesoro fu espressamente invitato dal capo del governo a disertare il Cda di salvataggio anti-opa e a spianare così la strada all’incredibile speculazione che si concluse con l’acquisizione di Telecom. Cosa fece Draghi, nell’indifferenza della stampa manettara e moralista? Scese dal Britannia per evitare di partecipare a quella che sembrava diventare «una svendita delle grandi aziende pubbliche italiane alle multinazionali americane e britanniche»: in seguito fu lo stesso Draghi ad ammettere il suo imbarazzo durante un intervento in aula alla Camera per rispondere alle interrogazioni di tre parlamentari sul caso. Guarda caso dopo la “merenda” sul Britannia del 2 giugno 1992, soltanto del settore agroalimentare, tradizionalmente importante per la nostra economia, furono numerose le ditte che vennero acquistate dagli stranieri: Locatelli, Invernizzi, Buitoni, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini, Perugina, Mira Lanza. L’operazione Britannia garantì alle multinazionali anglo-americane di mettere le mani su quasi il 50% (precisamente il 48%: 34 agli americani e 14 ai britannici) delle aziende italiane finite in mano straniera. Mentre sul finire degli anni ’90 toccherà ai francesi fare grande shopping nei settori strategici della grande distribuzione, della gestione delle acque e dell’alta moda. E la stampa libera, democratica e antifascista, dov’era? Dormiva. Anzi, diciamo pure che la grande stampa prestava bellamente “il fianco al nemico”. Già, perché la grancassa mediatica giocò un ruolo fondamentale in quel periodo di colonizzazione che fu poi mascherata con l’incipiente cosiddetta “rivoluzione” di Mani Pulite. Nel luglio ‘92, la Goldman Sachs annunciava che la lira era sopravvalutata e ne indicava in mille lire il rapporto con il marco tedesco (allora sulle 800 lire). Ad agitare il “rischio Italia” cominciò guarda caso il Financial Times, proprietà di Samuel Brittan, continuò l’Economist, proprietà di Evelyn De Rotschild e diede man forte il Washington Post (della Salomon Brothers e dei Lazard). Qui in Italia, l’allarme mediatico del trio anglo-americano fu amplificato a dismisura dai giornali di Agnelli, di De Benedetti e della Confindustria. Nell’agosto del 1993 il ministro degli Interni, Nicola Mancino, a seguito dell’ondata di attacchi terroristici che colpirono il paese, dichiarò: «Non escludo un ruolo della finanza internazionale». E il 5 novembre fu il “venerdì nero” della lira anche a seguito di voci provenienti da Londra su un possibile avviso di garanzia nei confronti del presidente Oscar Luigi Scalfaro. Il giorno dopo, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, perché «avviasse le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale, considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute». Cioè si chiedeva di indagare su un possibile reato di aggiotaggio da parte di chi aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa. Nel dicembre 1993 l’Italia era un paese a completa sovranità limitata. A Roma arrivarono gli esperti del Fondo Monetario Internazionale per correggere il bilancio stilato dal governo Ciampi: benino, dissero, ma bisogna fare di più. Per il Fondo non bastava ridurre il deficit pubblico, bisognava ottenere un avanzo primario del 4-5% entro il 1994-’95. Come? Ma ovviamente attraverso “ulteriori azioni fiscali”. Chi poteva farlo, chi poteva accollarsi il peso politico di una simile responsabilità in un momento in cui le sedute della Camera si tenevano a Palazzo di Giustizia? Dopo le elezioni amministrative del novembre 1993, la Dc scomparve a favore della grande affermazione della coalizione di sinistra guidata dall’allora Pds.

La borsa festeggia la vittoriadegli “ex” compagni
Fino a pochi anni prima la vittoria elettorale di un partito di sinistra avrebbe significato il crollo delle Borse, allora invece la Borsa di Milano guadagnò 2,5 punti subito dopo la vittoria della Quercia: di più, i primi entusiasti acquirenti sono investitori stranieri. Come mai? Stranamente tra il primo e il secondo turno delle amministrative, Financial Times e Le Monde, i due giornali dell’establishment che non hanno mai digerito la discesa in politica dell’outsider Berlusconi, si precipitarono a Roma per intervistare deferenti Achille Occhetto. In entrambe le interviste Occhetto si disse fermamente intenzionato a proseguire sulla linea politica di Carlo Azeglio Ciampi. Et voilà, la rivoluzione di cui la finanza internazionale aveva bisogno è già delineata nel ‘93: la sinistra lascerà che capitali e aziende fuggano all’estero come chiedono le leggi del libero mercato, nuovo dogma dei post-comunisti, in compenso i nuovi leader dell’Italia dalle “mani pulite” avranno mano libera per esercitare in patria tutto l’antifascismo che vogliono. Chissà come mai nel 1994 Silvio Berlusconi decise di scendere in campo? Chissà come mai, il 25 maggio 1994 la lira crollò ancora una volta e la Borsa perse il 2,6% in poche ore a seguito di voci provenienti, guarda caso, da Londra su un presunto avviso di garanzia contro il nuovo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi? Chissà come mai l’avviso arriverà poi puntualmente qualche settimana dopo, recapitato a mezzo stampa dal quotidiano della Fiat? E chissà come mai, forse ricordando questi precendenti, la sera della bocciatura del lodo Maccanico-Schifani da parte della Consulta, Berlusconi avrebbe sbottato, adirato, davanti ai suoi collaboratori: «I poteri forti ci odiano proprio!»? Inquietante, vero? Almeno come alcune sgradevoli coincidenze che vedono protagonista l’Economist, principale inquisitore mediatico del Cavaliere, quando il settimanale britannico si occupa direttamente dell’Italia. Scavando nell’archivio ritroviamo un articolo pubblicato il 14 marzo 1992, pagina 20. Argomento? Farla finita con la Dc è ormai una necessità. Una previsione troppo facile visto che in Italia già tintinnano le prime manette, Tangentopoli sta per esplodere e l’articolo di Economist esce in edicola mentre era ancora caldo il cadavere di Salvo Lima, uomo di Andreotti in Sicilia, caduto sotto i colpi di ignoti.

Dall’Economist all’Economist
(e al Financial Times)
Due settimane fa è apparso uno strano articolo sul Financial Times. Un articolo dedicato al delicato momento del capitalismo italiano e che reca la firma di Marco Tronchetti Provera. Il Financial Times oggi è di proprietà del gruppo Pearson, lo stesso editore dell’Economist, ed è il giornale che una settimana prima aveva avvertito i raiders della finanza che l’Italia era di nuovo terra di conquista, indicandoci “paese a rischio” e proponendo di introdurre un “premio di rischio” su tutti i prodotti finanziari italiani. Dov’è la stranezza di quell’intervento? Sta nel fatto che mentre il Financial Times declassa a lettera di trenta righe un articolo del presidente di Confindustria, Antonio D’Amato, in risposta alla denuncia fattaci dalla testata inglese di “paese a rischio”, nel contempo offre una prestigiosa tribuna al proprietario di fatto di Telecom, ovvero, una delle poche grandi aziende rimaste ancora di proprietà italiana (fino a quando?). Certo oggi non c’è più una lira contro cui speculare e restano ben poche aziende da privatizzare. Ma ci sono ancora le banche che garantiscono l’esistenza di un “sistema Italia” nazionale. Cosa succederebbe se, a seguito delle note vicende Cirio e Parmalat, la sfiducia dei cittadini verso gli istituti finanziari e il risparmio, portasse al tracollo del sistema creditizio italiano? Questo è infatti l’unico ganglo vitale rimasto alla sovranità nazionale in tempi di moneta unica ed Europa a 25: il sistema bancario, la grande sfida tra risparmio e finanza. La sfida tra una ripresa di fiducia legata all’economia reale e quindi a un sistema creditizio funzionale all’imprenditoria, e il perpetuarsi di un sistema di economia finanziarizzata dove le imprese sono concentrate più che sui profitti da produzione, sui tavoli da gioco del grande casinò finanziario mondiale. Chi mette le mani sulle banche mette le mani sul “sistema Italia”. Guarda caso da giorni circola la voce di un pressante interesse del gruppo olandese Abn-Amro su Capitalia (che smentisce ma si apprezza a Piazza Affari). Dieci anni dopo la “grande rivoluzione”, il grande Gatsby sta per rifilarci l’ultima stangata?

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