L’uomo che sapeva troppo. Il giallo indispensabile di Chesterton

In tempi cupi e difficili non c’è da fare gli schizzinosi, serve anche quel poco di buono che il peggiore degli uomini può dare. Per GKC l’esistere è una battaglia, non una conversazione

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

«Un racconto senza morti per me resta ancora un racconto senza vita», così scrisse Gilbert K. Chesterton descrivendo la sua esperienza di scrittore giallista. E la verità di questo paradosso è piombata brutalmente addosso anche a noi nell’ultimo mese. Appena lo sfondo nero della morte irrompe in mezzo alla realtà, la percezione della vita si altera, ma non per deformarsi, bensì per assumere i veri contorni sconcertanti che l’esistere dovrebbe sempre avere. Al di là di tutte le analisi politiche, al di là dei fondamentalismi religiosi e delle bandiere degli atei, al di là delle opinioni degli intellettuali blasonati, la tremenda notte del 13 novembre a Parigi ci ha messo questo tra le mani: lo sconcerto. Il terrorismo funziona, nella sua logica perversa, proprio perché non inventa nulla, ma si arroga quel diritto che dovrebbe essere solo del Destino (o Natura, o Caso, o Provvidenza) e cioè l’imprevedibile ineluttabilità della vita e della morte.

Il progresso ci ha regalato tanti suadenti strumenti per pianificare il vivere in modo tale che assomigli a una tabella di marcia prestabilita dalla nostra volontà. Ma è solo un’illusione che ci tiene comodi su una poltrona, posta sul ciglio di un burrone. La caduta è stata rovinosa. La tragedia di una strage di gente comune avvenuta nel cuore dell’Europa ci ha catapultato in una zona fatta di terrore e tremore. Però, ci è stato subito detto che non bisognava cedere alla paura, per non darla vinta ai terroristi. È parso giusto che la reazione immediata dovesse essere una reazione coraggiosa e forte. Ma chi – onestamente – può dire di non aver avuto paura? Chi può dire di non avere tuttora paura? È innaturale che un uomo vivo non abbia paura, perché essere vivi significa sentirsi sempre in pericolo – notò il signor Chesterton.

Però tra l’ideologia del terrorismo e la percezione della paura passa un abisso. Bisogna attraversare la paura, per non cedere alla logica perversa del terrore. Il mistero che da sempre aleggia su cose sconcertanti come la vita e la morte comporta una visione onesta dell’umano fatta anche di paura, che può degenerare in malsano terrore, ma può anche essere la premessa di un sano stupore. Per via di paradosso, si può dire che la faccia tremenda dell’Isis sia la deformazione dei volti simpatici di Sherlock Holmes, di Miss Marple, del tenente Colombo e della signora in giallo. Si può anche dire che l’investigatore sia la nemesi del terrorista, perché la sua ipotesi operativa è che il mistero di una morte sia un enigma a lieto fine, un nodo che si scioglie (non un cappio che soffoca).

Il pessimista e l’idealista
Fu per questo che Chesterton dedicò buona parte delle sue risorse creative nel dar vita a indimenticabili racconti gialli. La riteneva una forma letteraria indispensabile per l’umanità, perché mette a tema la vita sullo sfondo della morte e in questo modo ricorda a tutti che l’esistere è una battaglia e non una conversazione. I suoi racconti gialli più famosi hanno per protagonista Padre Brown, un prete dall’aspetto dimesso, un segugio pronto a stanare una briciola di bene anche in fondo al cuore di un uomo cattivo. Ma la lista degli investigatori inventati dal genio di GKC è più lunga: c’è il Basil Grant de Il club dei mestieri stravaganti, c’è il poliziotto filosofico Gabriel Syme de L’uomo che fu Giovedì, c’è il poeta amico dei matti Gabriel Gale de Il poeta e i pazzi.

E poi c’è Horne Fisher, l’investigatore meno probabile degli annali delle detective stories e protagonista de L’uomo che sapeva troppo, in libreria con Lindau. Il tratto tipico della sua persona sono le palpebre cascanti, lui sembra sempre sul punto di addormentarsi. L’autore lo ritrae in modo apparentemente offensivo: «Era un uomo che esprimeva le opinioni di un pessimista con il tono di un annoiato». Il problema di Fisher è che sa troppo, come annuncia il titolo: è un aristocratico imparentato con ogni membro del governo inglese e dunque sa tutto, sa davvero troppo, di ogni evento che accade. Conosce il risvolto gretto e tutt’altro che edificante di ogni vicenda politica e sociale. Niente lo stupisce più, sapendo che dietro ogni scelta, avvenimento e impresa ci sono interessi per nulla nobili o puri. Questa è la molla che lo stimola a interessarsi di crimine e omicidi, cioè di fatti oscuri che lo coinvolgono con qualcosa che – finalmente! – non sa.

Lo accompagna nelle indagini un Watson che è il suo esatto contrario, si tratta di un giornalista in carriera di nome Harold March. È un entusiasta e un idealista, un brillante scrittore «abbastanza giovane da aver ben in mente tutti i politici, e da non volere solamente dimenticarseli tutti». Va detto che in questo libro la parola giornalista è un complimento. Insomma: nulla a che vedere coi nostri mestieranti che bazzicano tra intercettazioni private e documenti segreti. March è un vero inquisitore, partecipe della cosa pubblica e dunque intraprendente nell’interagire con ministri e personaggi influenti. Chesterton stesso scelse di definirsi giornalista, nonostante la sua multiforme attività letteraria; perché anche un poeta o un romanziere può essere, in fondo, nient’altro che un giornalista se a tema dei suoi contenuti c’è uno sguardo attuale sull’umanità. Anche l’uomo comune è un giornalista, se abita con meraviglia e senso critico i fatti di ogni suo giorno.

Il giornalista che c’è in noi
Un lettore può godersi L’uomo che sapeva troppo come una piacevolissima raccolta di racconti, confezionati da uno dei più brillanti giallisti (Chesterton, infatti, presiedette per sei anni il Detection Club, un gruppo che riuniva i più grandi giallisti inglesi e in questo ruolo lo sostituì niente meno che Agatha Christie). E dedicarsi a leggere e risolvere storie del mistero è già un fruttuoso passatempo, innanzitutto perché è coinvolgente e poi anche perché il giallo educa l’uomo a non dimenticare che il senso del pericolo è connaturato alla vita. Però, per chi voglia accettare la sfida, l’orizzonte dell’intera opera ha un’ambizione più azzardata. Si potrebbe dire che è il romanzo di formazione del giovane giornalista Harold March, grazie alla voce pigra e alla mente geniale di Horne Fisher. Perciò è anche un pungolo per quel bravo giornalista che c’è, o dovrebbe esserci, in ciascuno di noi. A chi voglia coraggiosamente imboccare la strada di questo “sussurro” che Chesterton fa al lettore si pone l’ipotesi di guardare l’umano secondo una prospettiva tutt’altro che politicamente corretta. «Credimi, nessuno conosce la parte migliore degli uomini, finché non ha conosciuto la loro parte peggiore. (…) Dio solo sa a quanto male può sopravvivere una coscienza e sa anche come un uomo, che ha perso il suo onore, possa ancora sforzarsi di salvare la sua anima», così dice Horne Fisher a Harold March.

Questa è l’ultima paradossale tappa di un percorso in cui l’uomo che sapeva troppo stimola e provoca il giovane giornalista a prendere atto del torbido in cui l’umano è costretto a sguazzare. La meritocrazia, l’onore, l’onestà sarebbero ideali davvero ammirevoli su cui fondare la convivenza umana. Ma gli ideali non si incontrano mai nella loro purezza nella realtà. E il torbido guazzabuglio del reale può davvero far invecchiare prematuramente un uomo, rendendo apatico il suo viso e cascanti le sue palpebre: «Hooker Wilson fu il primo criminale che conobbi, ed era un poliziotto», ammette Fisher, raccontando la sua prima esperienza di investigatore, che gli svelò il volto meno rassicurante del mondo delle relazioni umane. E il primo caso in cui anche March si trova coinvolto si conclude con un omicida che non viene punito, perché «i pesci grossi vanno ributtati in acqua». Il mondo di grandi ideali e uomini integerrimi, che March avrebbe voluto raccontare con la sua penna, non esiste. Esiste una trama agrodolce, anzi amara, di relazioni corrotte e biechi interessi.

Ed è a questo punto che l’idealista March getterebbe la spugna e, invece, il disilluso Fisher sorprendentemente si desta a imprese gloriose. Ancora una volta è l’emergenza a togliere il torpore dal cuore e dagli occhi dell’uomo: la guerra. Lo sfondo tremendo di un conflitto armato che mette a fuoco e fiamme l’Inghilterra è in grado di compiere un miracolo. Ancora una volta, in una società tutt’altro che perfetta, sono il pericolo e la morte a fare chiarezza sul senso della vita e a suscitare un barlume di virtù in uomini tutt’altro che probi. Sarebbe molto bello se vivessimo in un mondo di colori nitidi e distinti: il bianco dell’onestà, il nero del male, il rosso dell’amore, l’azzurro dell’innocenza. Ecco, non è mai così. La nostra tavolozza umana è tutta scompigliata e mescolata, ma proprio perciò può ospitare un eroismo che non è quello delle fiabe.

Il cavaliere puro e impavido si muove tra foreste di malvagi orchi e fate buone. Ma a un giornalista moderno può essere data un’occasione davvero interessante, quella di assistere all’unico momento in cui un gruppo di uomini corrotti e disonesti s’impegna per fare una cosa buona, dare la vita per il proprio paese. Verrebbe da dire che con Chesterton non c’è proprio scampo, bisogna rimboccarsi le maniche. Con la scusa di venerare la meritocrazia e le «mani pulite», potremmo tirarci indietro dalla cosa pubblica usando il pretesto dei nostri innumerevoli limiti e peccati. Ma in tempi cupi e difficili non c’è da fare gli schizzinosi, serve anche quel poco di buono che il peggiore degli uomini può dare.

@AlisaTeggi

Foto Ansa

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