Il dittatore dello Stato libero di Caracas

Lo strano governo filocastrista di Hugo Chávez Frías, golpista fallito, al potere sull’onda di “Mani pulite” alla venezuelana. Tra petrolio a basso prezzo a L’Avana e statalizzazione dell’educazione. Quando gli italiani a Caracas prendono schiaffi. E Antonio Di Pietro, forse, non solo baci e abbracci

Gli anni Novanta del Venezuela hanno un solo nome: crisi. L’inflazione a due zeri e il costante decremento del prodotto interno lordo hanno costretto (nel 1996) due terzi della popolazione al di sotto della soglia di povertà. E nemmeno la politica è stata risparmiata, con i due tradizionali partiti d’ispirazione cristiano-progressista, che per trent’anni si sono spartiti il potere — Acciòn Democratica e Partito Social-Cristiano (Copei) —, incapaci di frenare la recessione. Per questo, alle elezioni presidenziali del 6 dicembre 1998, trionfa il populista Hugo Rafael Chávez Frías, leader del Movimento per la Quinta Repubblica, descritto come un “peronista di sinistra”. L’occasione è offerta dall’inchiesta giudiziaria che travolge i capi cristiano-progressisti, a fronte della quale Chávez si presenta come “volto nuovo” della politica. Eppure, già colonnello dell’esercito venezuelano, il neopresidente e Capo del governpo ha cominciato la carriera con la galera seguita a un fallito colpo di Stato (4 febbraio 1992). E il vizio, evidentemente, non lo ha perso se, una volta eletto, l’ex aspirante uomo forte di Caracas ha subito imboccato la strada del dispotismo avocando a sé il controllo di tutte le articolazioni dello Stato e della societá civile, pur nella cornice di una legalità formale. In cerca di legittimazione popolare una volta varata la nuova Costituzione con l’appoggio dei due terzi dell’Asamblea Nacional (il Parlamento), Chávez ha quindi indetto nuove elezioni per il giugno 2000.

Dal Venezuela alla Repubblica Bolivariana
L’unico sfidante è una serpe coltivata nel suo stesso seno: Francisco Arias Cárdenas, anch’egli ex uomo forte dell’esercito e mente del fallito golpe del ’92. Due uomini e due programmi pressoché identici. A metà 2000, Chávez chiama il Paese a rinnovare anche altre 30.000 cariche istituzionali, dai governatori ai consiglieri di zona. Ma, a soli dieci giorni dal voto, le elezioni vengono rimandate a causa di non meglio identificati “problemi tecnici”. E in agosto Chávez ottiene l’agognato appoggio popolare, ringraziando con un giro di vite. In vista del referendum del dicembre successivo, che punta a sostituire i rappresentanti della Central de los Trabajadores Venezolanos — il consiglio dei sindacati venezuelani, con l’esclusiva della concertazione —, si leva la protesta dei rappresentanti dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali internazionali (come l’International Labour Organization) che accusano Chávez di violare la libertà di associazione. Mentre gli oppositori sociali vengono bollati come “nemici del popolo” e “cortesemente” invitate a lasciare il Paese, i “sì” vincono con un 76% dei consensi (ma solo il 24% degli elettori è andato a votare!). Sempre in dicembre, una sentenza del Tribunal Supremo de Justicia (il cui presidente si è laureato in giurisprudenza solo tre mesi fa) vieta a sacerdoti, militari e stranieri di rappresentare le Organizzazioni non governative venezuelane. Le prime a farne le spese sono le ONG che tutelano i diritti dell’uomo, le organizzazioni sindacali di natura internazionale (costituite negli anni Settanta da fuoriusciti politici di Colombia, Uruguay, Paraguay e Cuba) e l’associazionismo cattolico. Un recente documento del ministero dell’Educazione, che fra pochi mesi presenterà i nuovi programmi scolatici nazionali, afferma l’intenzione di “formare cittadini e cittadine che contribuiscano a elaborare una nuova cultura politica in grado di garantire l’irreversibilità del processo rivoluzionario della Repubblica Bolivariana del Venezuela”. E un decreto del governo ha istituito un corpo di super-controllori itineranti con il potere di sostituire ad libitum docenti o presidi e di chiudere o statalizzare le scuole private.

Un po’ di xenofobia (ma Di Pietro non lo sa)
Anche Chávez, insomma, sogna l’hombre nuevo socialista: non fosse altro perché il suo grande amico e maestro è Fidel Castro. I due vanno scambiandosi lunghe visiste di cortesia e, già prima delle elezioni del 2000, in Venezuala erano sbarcati 500 soldati cubani inquadrati in una forza antisommossa di stanza al Fuerte Tiuna di Caracas. Comune è il loro linguaggio politico — revolución, poder al pueblo, anatemi contro el imperialismo norteamericano — ed entrambi sognano un’organizzazione fra Paesi in via di sviluppo alternativa al blocco filo-statunitense. Un importante accordo commerciale, tutto a vantaggio di Castro, prevede che il Venezuela — grande produttore di petrolio, è fra i fondatori dell’OPEC — venda a prezzi di favore l’oro nero a L’Avana, la quale fornirà assistenza ospedaliera ai malati venezuelani. L’edilizia pubblica tiene a battesimo un progetto pilota che durerà vent’anni, il cui modello è il kibbutz israeliano: 140 famiglie selezionate accuratamente da un sociologo governativo abiteranno un nuovo insediamento attrezzato anche di scuole, campi agricoli e cooperative di lavoro. Sarà la comunità a impartire ai giovani la nuova educazione atta a creare (parole di un addetto ai lavori) “un nuovo tipo di persone e un nuovo tipo di convivenza”. Se funzionerà, ce ne saranno altre venti. A questo utopismo si aggiungono poi i malumori di Washington — a cui non garba il sodalizio Castro-Chávez unto di petrol(dollari)io —, la sfiducia degl’investitori stranieri, l’aumento della disoccupazione, il desiderio di molti venezuelani di lasciare il Paese e la nueva ola dell’astio di regime nei confronti dell’imprenditoria europea. Lo scorso settembre si sono verificate azioni popolari di protesta contro gl’immigrati italiani, portoghesi e spagnoli. Giunti in Venezuela nel dopoguerra e artefici del vero tessuto economico del Paese, vengono accusati di sottrarre lavoro agli “autoctoni”. Che però — essendo i venezuelani frutto dell’incontro fra amerindi, neri di origine africana e bianchi del Vecchio Continente — di per sé non esistono. Intervenuto per smorzare la protesta, Chávez ha imposto il rigido controllo statale sulle imprese gestite da imprenditori di origine europea. Se ne sarà accorta Bruxelles, che nel marzo scorso aveva inviato a Caracas una delegazione europarlamentare incaricata di quantificare gli aiuti economici da versare nelle casse del Paese ibero-americano per l’alluvione del dicembre ’99? Se ne sarà accorto Antonio Di Pietro, presidente di quell’euro-delegazione e, si dice a Caracas, “amico personale” del líder maximo Chávez?

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