Il diritto di famiglia e la realtà

In difesa della riforma dell’affido condiviso, recentemente attaccata sul Corriere della Sera, secondo uno schema culturale fortemente ideologizzato

Un recente intervento del Prof. Gerardo Villanacci sul Corriere della Sera ha riproposto il tema – partendo dalla scarsa per non dire nulla rilevanza della famiglia tra le priorità di fatto dell’attuale governo (come per altro di quelli passati) e più in generale dai cambiamenti avvenuti negli ultimi anni che imporrebbero, a detta dell’autore, una nuova nozione di famiglia (ma su questo punto torneremo più avanti) – della necessità di rivedere il diritto di famiglia le cui problematiche «non sono risolvibili soltanto attraverso soccorsi di tipo economico, né tanto meno ponendo l’attenzione quasi in via esclusiva, come fino ad oggi è accaduto, al contenzioso tra i coniugi». Motivo per cui il ddl Pillon di riforma dell’affido condiviso, attualmente in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato, non sarebbe adatto allo scopo in quanto «pur essendo condivisibile nelle finalità di contrasto alla sindrome di alienazione genitoriale e alla attuazione del principio di bi genitorialità perfetta, risulta alquanto parziale e difficilmente attuabile in concreto, non soltanto per ragioni di carattere economico, poiché non tutti i genitori hanno risorse adeguate a garantire due case ai figli, ma anche per la obiettiva difficoltà di questi ultimi a traslocare da un immobile all’altro quasi a giorni alterni».

In realtà le cose stanno diversamente, e il ddl Pillon, pur essendo sicuramente migliorabile e perfettibile (prova ne sia che ci stanno lavorando), ha tutte le carte in regola per riformare in modo corretto una materia che nel corso degli anni è stata anche (non solo, ma anche) fatta oggetto, nella prassi concreta, di strumentalizzazioni e interessi di parte in cui non poco peso hanno avuto schemi culturali fortemente ideologizzati. La critica del Prof. Villanacci se è dunque condivisibile quando sostiene che occorre superare un approccio che potremmo dire “settoriale” a favore di una riforma organica della materia, sembra essere molto meno convincente quando, pur riconoscendo positivamente le finalità del ddl Pillon poc’anzi ricordate, propone una riforma dell’intera materia che prenda atto del mutato concetto di famiglia, da un lato, per poi suggerire l’introduzione nel nostro ordinamento «della possibilità di stabilire accordi preventivi finalizzati alla regolamentazione del matrimonio e delle unioni civili», dall’altro.

Sul primo punto, una riforma che prescindesse dal fatto che nella quasi totalità dei casi la famiglia di cui si parla è la stessa che ha rappresentato e rappresenta l’ossatura della società italiana (e non solo), ossia composta da un uomo e una donna uniti dal vincolo matrimoniale, rischierebbe di diventare il classico cavallo di Troia a favore delle lobby gender-friendly, con tutto ciò che ne conseguirebbe. Sul punto, giova ricordare che essendo le unioni civili non equiparabili per legge al matrimonio, ne consegue che – se la logica ha ancora un significato – non è lecito parlare di “famiglie” same-sex in assenza di un vincolo matrimoniale propriamente detto. Cosa per altro riconosciuta dalla stessa legge che ha introdotto in Italia le unioni civili, che non a caso all’art. 1 parla di «specifiche formazioni sociali» in rapporto alle suddette unioni (leggi bene: formazioni sociali, non famiglie). Quanto poi alla possibilità di introdurre la figura dell’accordo pre-matrimoniale, molto in voga ad esempio nel mondo anglosassone, il rischio qui è di ridurre il matrimonio ad un qualcosa di meramente o prevalentemente economico, a tutto vantaggio degli studi legali che avrebbero il loro cospicuo tornaconto (gli stessi, per capirci, che vedono come il fumo negli occhi l’istituto del “mediatore familiare” previsto dal ddl Pillon, a motivo del fatto che il numero delle cause legali per l’affido dei figli crollerebbe) e con buona pace della necessità di superare, come sembra auspicare il Prof. Villanacci stesso, un approccio, appunto, solo economico al problema.

Né risultano convincenti le critiche, a volte anche scomposte e virulente (segno che la direzione è quella giusta) di chi nei mesi scorsi ha inteso affossare il disegno di legge Pillon con tanto di manifestazioni di piazza per chiederne il ritiro. A partire da quella, decisamente stravagante, di chi ha accusato il ddl in questione di essere portatore di una visione addirittura gender-friendly (sic!). Che nei confronti di uno come Pillon, che è stato tra i promotori del Family Day, sarebbe come dire che Emma Bonino è pro-life o Berlusconi comunista. Non scherziamo. Il punto dolente secondo tale critica – portata avanti, curiosamente ma non troppo, anche da quegli stessi ambienti che ai tempi del ddl Cirinnà sostenevano che non era, non è importante che un figlio abbia un padre e una madre perché ciò che conta è l’amore, mentre ora con un triplo salto mortale si stracciano le vesti sostenendo l’esatto contrario (al solito, due pesi e due misure, chapeau) – il punto dolente, dicevamo, starebbe nella filosofia soggiacente all’istituto della bi-genitorialità perfetta, che prevede che i figli di genitori separati trascorrano un tempo uguale con la madre e con il padre. Ciò che agli occhi dei critici del ddl Pillon comporterebbe l’affermazione della non differenza e della interscambiabilità tra figura paterna e figura materna, come vuole appunto la teoria gender che ha ispirato, tra gli altri, il disegno di legge sulle unioni civili.

Detto altrimenti: pretendere che un figlio stia un tempo uguale con entrambi i genitori comporta ipso facto affermare che tra padre e madre non c’è differenza. Ora, anche a voler tralasciare il non banale dettaglio che per smontare un simile assunto sarebbe sufficiente cambiare le percentuali (secondo tale stringente logica basterebbe stabilire che un figlio stia, chessò, il 55% del tempo con un coniuge e il restante 45% con l’altro per mettere al riparo il ddl da ogni infiltrazione gender, giusto?), ciò che ai sostenitori di siffatta tesi sembra sfuggire è la valenza qualitativa della bi-genitorialità perfetta, l’affermazione cioè che la figura paterna per un figlio, e questo vale a prescindere se i genitori si siano separati o no, è importante tanto quanto quella materna, ciò che rappresenta un dato di fatto indisponibile a qualsivoglia critica.

Se al contrario un figlio passa la maggior parte del tempo con un genitore, è di tutta evidenza che quel genitore, madre o padre non fa differenza, diventerà il suo punto di riferimento a discapito dell’altro e soprattutto a discapito del figlio. Stabilire un tempo paritetico appare dunque una soluzione equilibrata, testimoniata per altro da numerosi studi internazionali, e ferma restando e anzi riaffermando la diversità di ruolo tra padre e madre, che c’è ed è sacrosanta, ma nel contesto di una perfetta parità quanto a importanza nel processo di crescita dei figli. E questo con buona pace della cultura sessantottina che da mezzo secolo a questa parte ha fatto strame della figura paterna riducendo il padre a suppellettile affettivo o, nel migliore dei casi, ad “amico” dei figli, come anche del politicamente corretto oggi imperante (in alcuni casi connotato da un forte retrogusto sessista di segno contrario, non meno sgradevole di quello maschilista).

Checché se ne dica, la norma prevista non solo è dettata da assoluto buon senso oltreché ispirarsi al principio di realtà (altro che gender…), ma è oltremodo importante perché punta a raddrizzare una situazione, come quella attuale, che è di fatto gravemente discriminatoria e vessatoria nei confronti di padri e mariti separati. Diciamo le cose stanno: è vero o no che oggi quando marito e moglie si separano i figli vengono affidati nella stragrande maggioranza dei casi alla madre (il che ci sta se molto piccoli, molto meno se già grandi) mentre al marito – al quale nel frattempo viene imposto di lasciare la casa e corrispondere alla moglie un assegno di mantenimento (i dati Istat dicono che nel 60% dei casi, che diventa il 69% quando c’è di mezzo un minorenne, la casa di famiglia, indipendentemente dalla proprietà, viene assegnata alla madre) – restano le briciole, ossia la possibilità di vederli qualche giorno al mese, se gli va bene? Con l’aggravante, fenomeno che è già diventato un’emergenza sociale, che tanti, troppi mariti e padri si ritrovano sul lastrico e costretti a mendicare un letto o un pasto caldo. È giusto? Ovvio che no. Poi, certo, ci sono le eccezioni. Che però come tutte le eccezioni confermano la regola. Regola che è ora di cambiare. Da qui l’esigenza, prevista nel ddl Pillon, che vi sia un equilibrio tra entrambe le figure genitoriali, perché i figli hanno tutto il diritto, appunto, di stare con la madre e con il padre.

Lo stesso dicasi per un altro dei punti più contestati del ddl, quello del cosiddetto “mantenimento diretto”. In che consiste? Consiste nel fatto che – così come i figli hanno diritto a stare con entrambi i genitori – al sostentamento dei minori devono provvedere “direttamente” entrambi i genitori, ribadendo per altro ciò che è già previsto dalla normativa vigente la quale solo in via eccezionale prevede l’assegno perequativo o di mantenimento. Il punto è che, in linea con la migliore (si fa per dire) tradizione italiana, ciò che doveva essere marginale è diventato la regola. Della serie: fatta la festa gabbato lo santo. Il mantenimento diretto, oltre ad essere prassi in diversi Stati (California, Svezia, Belgio, ecc.) ha anche il vantaggio di contribuire, si legge nella relazione introduttiva del Ddl, «…a una percezione nel minore di maggior benessere economico (non dovendo più il genitore veder mediato il proprio contributo da una persona – l’ex partner – in cui, a torto o a ragione, non ha fiducia)».

Da parte loro quanti si oppongono al ddl Pillon sostengono che in questo modo la norma penalizzerebbe in particolare le donne, comunemente ritenute (a torto o a ragione) il coniuge economicamente debole, perché non avendo più diritto all’assegno di mantenimento si troverebbero in grave difficoltà. Le cose, di nuovo, stanno diversamente. Lo stesso Pillon, intervistato da Avvenire, ha chiarito che «la proposta non tocca in alcun modo l’assegno di mantenimento per il coniuge debole, che potrà continuare a percepirlo ove ne sussistano i requisiti… La proposta prevede poi che il mantenimento diretto per i figli sia calcolato su base proporzionale… È infine anche previsto un assegno perequativo qualora ciò sia indispensabile per riequilibrare le posizioni. Ma non possiamo più accettare che un genitore sia trattato da bancomat e un altro da badante». Più chiaro di così, si muore.

In conclusione, il ddl Pillon è un progetto che, recita ancora la relazione introduttiva, intende portare il diritto di famiglia «…verso una progressiva de-giurisdizionalizzazione, rimettendo al centro la famiglia e i genitori e soprattutto restituendo in ogni occasione possibile i genitori il diritto di decidere sul futuro dei loro figli lasciando al giudice il ruolo residuale di decidere nel caso di mancato accordo, ovvero di verificare la non contrarietà all’interesse del minore delle decisioni assunte dai genitori».

Al centro del ddl, e coerentemente con il principio di sussidiarietà, i promotori hanno inteso ri-mettere la famiglia sottraendo quanto più possibile ai tribunali il potere di decidere del futuro dei figli. Il che è un principio assolutamente condivisibile e sacrosanto. Principio da cui ne deriva un altro, altrettanto importante: il fatto cioè che i genitori, quando si verificano situazioni di crisi tali da poter sfociare in separazioni e divorzi (che per un figlio, con buona pace della vulgata corrente, sono sempre un trauma fonte di enormi sofferenze), riescano o quanto meno provino a trovare un accordo. Anche per questo risulta incomprensibile l’accusa, l’ennesima, di veicolare una visione adulto-centrica. Sarebbe strano i contrario. Se è vero, come è vero, che i figli soffrono a causa dei conflitti e delle separazioni dei genitori, è di sesquipedale evidenza che è dai genitori che bisogna partire.

La verità è che l’impianto di fondo del ddl Pillon punta a sanare evidenti storture accumulatesi negli anni a causa di una prassi non scevra da una visione sbilanciata del rapporto uomo-donna, rimettendo al centro la famiglia, puntando ad evitare per quanto possibile il calvario delle cause legali, garantendo ai figli un giusto e sacrosanto diritto di stare in egual misura con entrambi i genitori, i quali devono farsi carico direttamente del loro sostentamento ovviamente in modo proporzionale alle rispettive possibilità, superando in tal modo schemi e logiche del passato che oltre che essere non più aderenti alla realtà (di sicuro non più come prima) hanno nei fatti generato situazioni ben peggiori di quelle che si volevano sanare.

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