Il dialogo non basato sulla teologia, è questo lo scandalo di Ratisbona

La Santa Sede, all’indomani delle prime polemiche seguite alla lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona, ha sottolineato come il vero scopo dell’intervento papale non fosse quello di ostacolare il dialogo col mondo musulmano, ma semmai di favorirlo. Su che basi, dunque, si può e si deve sviluppare tale dialogo? Non innanzitutto su basi teologiche e interreligiose in senso stretto, per tre ordini di motivi. Il primo, che potremmo chiamare “strutturale”: «L’islam – afferma Ratzinger nel suo libro Il sale della terra, scritto quando era ancora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – non è una grandezza unitaria, non ha nemmeno un’istanza unitaria. Nessuno può parlare a nome di tutto l’islam, che non ha un magistero dottrinale comune».
Il secondo ordine di motivi riguarda l’essenza stessa del cristianesimo da un lato e dell’islam dall’altro e le loro ricadute sul piano sociale e politico: «Il Corano – si legge ancora ne Il sale della terra – è una legge religiosa che abbraccia tutto, che regola la totalità della vita politica e sociale e suppone che tutto l’ordinamento della vita sia quello dell’islam. La sharia plasma una società da cima a fondo». Per questo «l’islam pensa e organizza in maniera completamente diversa i rapporti tra società, politica e religione». E, al contrario di quanto accade col cristianesimo, capace per natura di fondare una genuina laicità, «l’islam non conosce affatto la separazione tra la sfera politica e quella religiosa». Il terzo ordine di motivi, quello più strettamente teologico, Ratzinger lo ha individuato, esponendolo in un convegno con i suoi ex studenti svoltosi nel settembre del 2005, nel diverso approccio del cristianesimo e dell’islam al concetto di rivelazione: mentre per il primo la rivelazione è un’opera a cui concorrono l’iniziativa divina e la risposta umana, cioè la capacità dell’uomo di accogliere un Dio che gli si fa vicino nella storia, per il secondo il Corano cala dall’alto su Maometto, gli viene dettato come pura espressione della volontà del totalmente Trascendente.
Uscendo così da una certa visione, molto in voga anche tra i cattolici, che tenta di velare sotto lo schermo protettivo del comune monoteismo le differenze profonde tra cristianesimo e islam, Ratzinger ci invita a prendere coscienza di tali differenze e a volgere lo sguardo su ciò che veramente può essere elemento di costruzione di un dialogo fruttuoso. E qui torniamo alla lectio di Ratisbona. Che cosa, infatti, può essere fattore di sviluppo di un rapporto ordinato e proficuo tra le religioni, le civiltà e le culture, se non quel logos, comune a tutti gli uomini, che Benedetto XVI ha indicato come il principio di ragione capace di aprirsi all’universalità del reale; quel logos che si oppone, in quanto vertice della dignità umana, alla violenza ed è capace di accostarsi al Mistero e all’Eterno? Senza logos – ci ha detto dunque il Papa – non c’è dialogo. «Aprirsi all’ampiezza della ragione, non rifiutare la sua grandezza»: è questa la vera sfida che Ratzinger ha lanciato da Ratisbona.

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