Il Covid-19 ha provocato uno tsunami sulla salute mentale

L’impatto di una malattia su scala globale genera un clima di paura e di panico, con ricadute psicologiche e affettivo-emotive a livello individuale e di massa

Tratto dal Centro Studi Livatino

1. Nonostante le conoscenze degli effetti della pandemia sulla salute mentale siano ancora limitate e derivate da esperienze limitate, come quelle che si riferiscono alle epidemie di SARS o Ebola, è plausibile che la domanda di interventi psicosociali aumenterà considerevolmente nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

Nel suo saggio “Panic and Pandemics”[1] Mario Perini ricorda come «accanto all’essere un fantasma inquietante, una terribile memoria del passato, le epidemie sono diventate nei tempi recenti anche un incubo presente e attuale, una fonte di paure individuali e collettive così difficili da sostenere poiché rappresentano simbolicamente sia tutte le insicurezze, le complessità e le fragilità non viste o disconosciute proprie della nostra vita moderna, sia le ansie arcaiche o il “terrore senza nome” appartenenti all’esperienza emozionale che ogni essere umano fa nel corso della sua primissima infanzia».

L’impatto di una malattia su scala globale non è solo un evento medico–sanitario quanto anche un evento psicologico, sociale ed economico, che genera un clima di paura e di panico, con ricadute psicologiche e affettivo-emotive a livello individuale e di massa. Si innesca quello che Philip Strong spiegava come la versione medica di un incubo hobbesiano – la guerra di tutti contro tutti –, che si accompagna ad una equivalente epidemia psichica di paura, panico, isolamento, afflizione, sospetto e stigma, ricerca dei colpevoli/responsabili[2]

2. L’investimento nei servizi e in programmi di salute mentale a livello nazionale, che hanno sofferto per anni di scarsi finanziamenti , è quindi ora più importante che mai. Gli ultimi mesi hanno implicato molte sfide, in specifico per gli operatori sanitari, gli studenti, i familiari dei pazienti affetti da Covid-19, le persone sofferenti da disturbi mentali e più in generale le persone che versano in condizioni socio-economiche svantaggiate, e i lavoratori i cui mezzi di sussistenza sono stati messi in pericolo[3]. L’impatto economico della pandemia ostacola, oltre che i progressi verso la crescita, anche quelli verso l’inclusione sociale e il benessere mentale. Numerosi studi mostrano che la perdita di produttività lavorativa è tra i principali determinanti della cattiva salute mentale.

Le organizzazioni governative e della salute informano regolarmente sulle misure preventive da attuare contro l’avanzamento del Covid-19, ma non si soffermano a sufficienza sulle conseguenze psicologiche del periodo di pandemia e di isolamento sociale. Sono tantissime in Italia le persone affette da depressione disturbi d’ansia che rischiano attualmente di peggiorare il loro stato[4].

La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato uno studio sull’impatto psicologico del Coronavirus. Per il passato, se pure non con lo stesso impatto, può valere il confronto con la quarantena messa in atto in varie zone della Cina a seguito dell’epidemia da SARS del 2003[5]: in quella situazione la popolazione fu obbligata a restare in quarantena per dieci giorni, periodo che è servito agli psicologi locali per analizzare l’effetto di questo genere di emergenza.

Grazie ai dati raccolti e al raffronto con quanto viviamo adesso, è stato possibile riconoscere le conseguenze psicologiche principali del Coronavirus e analizzarle nelle persone. Le ricercatrici che hanno portato a termine lo studio sono giunte alla conclusione che superati i dieci giorni di isolamento totale la mente inizia a capitolare. Dall’undicesimo giorno compaiono stressnervosismo, ansia maggiore. L’incapacità di mantenere il nostro stile di vita e la nostra libertà di movimento fa precipitare molti verso emozioni complesse e problematiche. In certi casi questo può aver scatenato o slatentizzato veri e propri sintomi di tipo depressivo.

3. Il Covid-19 ha provocato uno tsunami sulla salute mentale. Durante la prima ondata dei contagi, uno o più dei servizi dedicati a pazienti con problemi mentali, neurologici o di abuso di sostanze stupefacenti sono rimasti paralizzati nel 93 per cento dei Paesi monitorati  dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS). Quasi il 40 per cento dei Paesi europei partecipanti allo studio ha riferito situazioni addirittura peggiori, tanto che tre servizi di igiene mentale su quattro sono stati sospesi[6].

Molte sono state le difficoltà legate alla gestione dei pazienti psichiatrici contagiati dal virus: isolare questi malati negli ospedali per due settimane in una stanza singola è stato particolarmente difficile. I pazienti psichiatrici hanno bisogno di un’assistenza specialistica maggiore rispetto agli altri malati cronici. Questo è vero soprattutto per i pazienti che non sono collaborativi, come nel caso di coloro che sono sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori (TSO): in un reparto Covid ordinario, se non sono assistiti in modo adeguato, possono mettere a rischio la loro salute e quella degli altri. Come avvenuto per le residenze per anziani, anche nelle cliniche psichiatriche non sono mancati casi di focolai.

In questi mesi il personale che si occupa di servizi di emergenza, tra cui i TSO, si è trovato a gestire difficoltà simili a quelle vissute dal personale del pronto soccorso. Questi operatori intervengono in ambienti non protetti per assistere persone che sono in stato di agitazione, e spesso in situazioni difficili dovute all’abuso di alcol e di sostanze stupefacenti, che portano ad aggressioni e a contatti fisici ravvicinati. Le indicazioni del Ministero della Salute, come chiesto anche dalla Società Italiana di Psichiatria, hanno riconosciuto la necessità di utilizzare il massimo livello possibile di dispositivi di protezione individuali.

La maggior parte delle attività negli ambulatori e le visite domiciliari sono state sospese, e sostituite dalla telemedicina. L’andamento clinico dei pazienti è stato monitorato attraverso chiamate, videochiamate e altri strumenti digitali. Nella maggior parte dei casi è stato utilizzato il mezzo di comunicazione più semplice, il telefono, che ha permesso di raggiungere anche i pazienti più anziani. Per i pazienti disponibili sono state utilizzate videochiamate su WhatsApp o FaceTime.

4. Nel corso della prima fase dell’epidemia i professionisti della salute mentale hanno osservato un aumento dei disturbi in alcune categorie a rischio: i detenuti, i pazienti ricoverati in centri di recupero per tossicodipendenti, i genitori di bambini e ragazzi con disturbo da deficit di attenzione o disabilità intellettive, i parenti dei pazienti morti dopo aver contratto il virus, gli operatori sanitari. Tra questi ultimi si sono registrati casi di burnout, con grave esaurimento fisico e mentale, sentimenti di  colpa, inadeguatezza e fallimento[7].

Già prima della pandemia, le risorse per l’assistenza mentale erano scarse. Oggi l’accesso alle cure è ancora più difficile. L’assistenza sanitaria da remoto si è affermata come un’opzione praticabile, ma con ricadute differenti: per taluni pazienti le sedute in presenza sono molto importanti per il contatto visivo e il rapporto di fiducia che si instaura tra il terapeuta e il paziente. L’assistenza da remoto aiuta persone con difficoltà di mobilità o che faticano a instaurare rapporti di fiducia in presenza. Ma ci sono altre barriere che possono complicare l’assistenza di alcuni pazienti, per lo più nel caso degli anziani o di chi, per ragioni economiche o di altra natura, non ha accesso alla tecnologia.

5. I professionisti sanitari confermano che le telefonate e le videochiamate sono utili per seguire i pazienti già in cura, ma non sempre sono efficaci: possono rivelarsi complicate per chi inizia un percorso terapeutico. Emerge una duplice urgenza:

Emerge la centralità del territorio nell’assistenza sanitaria, e quindi la necessità del suo potenziamento. Questo deve essere decisamente orientato in senso comunitario sia sul piano teorico che nelle prassi, puntando su azioni di maggiore prossimità, a bassa densità di concentrazione di persone, domiciliarità ed interventi strutturati di comunità.

Foto Ansa


[1] Perini, M. (2012). Panic and Pandemics. In (a cura di) Halina Brunning “Psychoanalytic reflections on a changing world”, Karnac Books London. Pag. 213 – 232

[2] Vedi Iozzelli D, Facchi E.,  Cardamone G, Covid-19, salute mentale e ruolo dei Servizi: una review sull’impatto della pandemia in nuovarassegnastudipsichiatrici.it

[3]  cf. https://www.centrostudilivatino.it/pandemia-di-paura-e-salute-mentale-in-crisi/

[4] In Italia, secondo i dati più recenti disponibili La depressione è il disturbo mentale più diffuso: si stima che in Italia superino i 2,8 milioni (5,4% delle persone di 15 anni e più) coloro che ne hanno sofferto nel corso del 2015 e siano 1,3 milioni (2,5%) coloro che hanno presentato i sintomi della depressione maggiore nelle due settimane precedenti l’intervista. Rispetto alla media dei paesi europei, in Italia la depressione è meno diffusa tra gli adulti e tra i 15-44enni (1,7% contro 5,2% media Ue28) mentre per gli anziani lo svantaggio è di 3 punti percentuali. La depressione è spesso associata con l’ansia cronica grave. Si stima che il 7% della popolazione oltre i 14 anni (3,7 milioni di persone) abbia sofferto nell’anno di disturbi ansioso-depressivi.Al crescere dell’età aumenta la prevalenza dei disturbi di depressione e ansia cronica grave (dal 5,8% tra i 35-64 anni al 14,9% dopo i 65 anni). Rispetto agli uomini, lo svantaggio delle donne emerge in età adulta e si acuisce oltre i 65 anni di età. (https://www.istat.it/)

[5] Vedi https://www.ipsico.it/news/conseguenze-psicologiche-del-coronavirus/

[6] Vedi https://www.italiaoggi.it/news/salute-mentale-le-conseguenze-della-pandemia-saranno-devastanti-

[7] Ierardi F. e Gattesch C.,Le conseguenze della COVID-19 sul benessere psicofisico dell’operatore sanitario, in https://www.ars.toscana.it/

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