Il cavallo bianco di Massimo silvestre Vidal

editoriale

Come il suo illustre concittadino Rocco Buttiglione, Massimo D’Alema ha molte buone ragioni per prendere le cose con filosofia. Ed eccetto nel caso in cui gli sieda accanto un Giuliano Ferrara, personaggio che sembra innervosire non poco il nostro premier, in meno di un anno da capo del governo, D’Alema ha già imparato molto bene l’arte di non prendere mai di petto le questioni delicate o imbarazzanti per il suo esecutivo. Di carattere un po’ irresoluto e schivo, deve alle responsabilità assunte nel suo ruolo di leader quella facondia di pensiero e l’eloquio sciolto che lo hanno reso un po’ più uomo di società, sufficientemente a suo agio tra i grandi del mondo, si tratti di relazionare al Dipartimento di Stato americano o di festeggiare i cento anni della Fiat in casa Agnelli. Piace sentirlo parlare e la sua oratoria – benché dia l’impressione di essere improntata alla lieve saccenteria dell’uomo di nomenklatura che ha sfacchinato una vita per diventare quello che è – documenta una non comune attitudine all’arte oratoria propria di un curriculum scolastico da secondo, se non primo della classe. Le sue specialità sono “smussare i conflitti con le parti sociali” e ridimensionare questioni di lottagoverno che più paiono insolubili. Ultimamente eccelle nell’evocare la necessità di riforme radicali, naturalmente evitando le cosiddette “lacerazioni”. Insomma D’Alema si sforza di effondere intorno al suo operato olii ed essenze, imperturbabilità e laboriosità politica. Gli è che governare un paese non è come fare la pubblicità al pino silvestre Vidal. E Massimo D’Alema invece è un po’ l’Amedeo Nazzari della politica italiana di questa fine millennio. Il suo fascino ce l’ha, ma è come la copia fragile e smagrita di un Humphrey Bogart e il ritratto opposto della simpatia di un Jean Paul Belmondo. La specialità del nostro Amedeo D’Alema è il discorso parlamentare, al quale si applica con la solerte perizia dello studente alle prese con la prova di maturità. Grandi visioni umanistiche, buone citazioni dalla tradizione retorica, buona recitazione e ottima interpretazione del ruolo del leader. Vi è che, oltre questa facciata di aspirante attore streheleriano, a D’Alema sono sin qui mancate tutte le doti dello statista, al punto che neppure una delle tante annunciate e promesse riforme è riuscito, non diciamo a delineare, ma anche solo ad abbozzare. Giustizia, scuola, lavoro, sanità, pensioni, federalismo, tutti titoli frequentati nei discorsetti pubblicitari del nostro leader, ma che ormai fanno del nostro un paese alla deriva nel Mediterraneo perché indicano altrettanti problemi irrisolti. E quand’anche qualcuno della sua squadra vi abbia messo mano – è il caso del pessimo riordino della Sanità nazionale – pare proprio che il governo D’Alema sia riuscito a far peggio di quelli della Prima Repubblica, sconcertando il pubblico e, ne siamo convinti, se è vero che per un attimo ha immaginato di arruolare la Bonino al posto della Rosy da Sinalonga, anche se stesso. Amedeo D’Alema è infatti abbastanza intelligente per non sentirsi, nel segreto delle sue stanze, contento dell’operato del suo governo. E naturalmente, guardandosi allo specchio, accamperà tutte le giustificazioni del difficile frangente in cui, inchiappettato Romano, forse con eccessivo anticipo, si è ritrovato leader di governo. La guerra in Jugoslavia anzitutto (con tutta quella commistione di affari di Stato che legano Roma a Belgrado e tanto preoccupano il suo ministro Dini). E poi Bertinotti e Cofferati che recitano così bene la parte che fino a qualche anno fa recitava il suo Pc. Ancora: una compagine governativa di ribaltisti di cui conosce bene l’impeto per le grandi idee e soprattutto l’affetto per le poltrone; i fritti misti vari, dal Cdu all’Udeur, dallo Sdi ai cossuttiani, la cui esistenza politica, essendo strettamente legata alla sopravvivenza dell’attuale esecutivo, è l’unica carta sicura che garantisca a D’Alema la ricandidatura a premier. Ma tutto ciò, oltre a offrire un’immagine farraginosa e contraria alla grande visione di cui il premier vorrebbe nutrire il pubblico con le sue prediche, costituisce un punto di grande debolezza e, soprattutto, di enorme resistenza nel governo di un paese che deve assolutamente riformarsi se vuole restare in Europa. Si aggiunga a tutto ciò un non piccolo particolare: dati gli ultimi esiti elettorali, non si direbbe proprio che l’attuale coalizione sia baciata dal consenso popolare. Conclusione: può darsi che Amedeo D’Alema riesca nell’obiettivo di trascinare sé, sempre più vecchierel canuto e stanco, e il suo governo sempre più mastellizzato, fino al 2001. Ma avanti così ci arriverà come un somaro schiantato sotto una montagna di questioni rinviate e irrisolte. A quel punto il destino politico di Amedeo D’Alema si sarebbe compiuto, il grigio destino di un uomo che sognava di fare il principe su un cavallo bianco e finì per fare l’attore del pino silvestre Vidal. TEMPI

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