Il calo delle vocazioni sacerdotali e il problema del clericalismo

Di sacerdoti eccezionali ce ne sono, eccome. Ma il crollo del loro numero ci impone qualche riflessione sulla formazione che si fa nei seminari

Gli ultimi dati sulle vocazioni in Italia – il più eclatante è il crollo del 28% dal 2009 al 2019 – rilevati dall’ufficio per la pastorale delle vocazioni della Cei e confluiti nelle statistiche dell’Annuario pontificio, non fanno altro che confermare un fenomeno in atto da decenni.

Fenomeno le cui cause sono da sempre oggetto di pensosi dibattiti e convegni e documenti ecclesiali, e che sono sostanzialmente riconducibili, da un lato, alla virulenta laicizzazione che ha investito la società italiana nell’ultimo mezzo secolo e che ha colpito in particolare la famiglia; dall’altro, e specularmente al primo, la secolarizzazione e la crisi di fede nel vissuto quotidiano sia fuori sia, soprattutto, dentro la Chiesa.

Quale cura?

Quanto alla “cura” della malattia, sorvolando sulla imbarazzante miopia di quanti ancora ripongono speranza e fiducia in improbabili “piani” e “programmi” vocazionali, sovente contraddistinti da un pungente odore di tappo (tacendo per carità cristiana dell’”ecclesialese” in cui vengono tradotti, tra le cause primarie dell’abbandono massiccio dei fedeli), se tutti sono d’accordo sul fatto che occorre ripartire dai fondamentali, per così dire, ossia mettere in atto un’incisiva opera di ri-evangelizzazione della società, le cose cambiano quando dal “cosa” fare si passa al “come” farlo, posto che non sembra esserci molta chiarezza su cosa voglia dire essere cristiani.

C’è tuttavia un’altra questione, forse ancora più importante rispetto a quella di cui ci stiamo occupando (in ogni caso sono due facce della stessa medaglia e come tali andrebbero affrontate). Perché va bene ingegnarsi per rendere il sacerdozio di nuovo attraente e tornare ad avere i seminari pieni; ma ancor più decisivo è un altro tema, ossia quello della formazione.

Un compito per i laici

Diciamo le cose come stanno: se i seminari continueranno a sfornare preti come buona parte dei preti in circolazione, beh forse bisognerà cominciare a vedere il crollo delle vocazioni sotto tutt’altra luce anziché una disgrazia.

A scanso di equivoci: ce ne sono, eccome, di preti santi che, nelle parrocchie o in missione o dove sia, svolgono un lavoro encomiabile dando testimonianza di Cristo; ma si tratta di una minoranza, lodevole quanto si vuole ma pur sempre minoranza, che in quanto tale non sposta di una virgola il problema.

E forse non è un caso se uno come Vittorio Messori che di cose di Chiesa se ne intende, quando lo intervistai per Tempi alla domanda se fosse preoccupato per il calo delle vocazioni rispose così: «Per dirla crudamente: sapendo come funzionano e cosa insegnano buona parte dei seminari, ogni prete in più è un problema, se non un pericolo, in più… Se i preti facessero solo le cose che solamente loro possono fare – l’amministrazione dei sacramenti e l’annuncio del Vangelo – non ne occorrerebbero molti. Al resto potremmo (e dovremmo) pensare noi laici».

Il Vaticano II

Come si vede, torna il tema della formazione. Tema che ha tante dimensioni e componenti, ma che al fondo si traduce in quella che è “la” questione irrisolta: come formare preti non clericali (in realtà anche tanti laici sono clericali, ma qui ci occupiamo del clero).

Ora, che molti dei problemi che affliggono oggi la Chiesa siano dovuti al clericalismo è sotto gli occhi di tutti (tra questi tuttavia, e va ribadito checché ne dica certa narrativa, non rientra la pedofilia; il clericalismo in questo caso può essere un aggravante, ma la causa prima risiede nell’omosessualità dilagante tra le fila del clero. Tanto è vero che oltre l’80% degli abusi riconducibili alla pedofilia sono stati commessi da preti omosessuali, uno su tutti il noto predatore seriale T. McCarrick).

Il che ci porta dritti alla domanda attorno alla quale tutto ruota: ossia quanto e in che misura l’ecclesiologia del Vaticano II è stata recepita, e più ancora viene insegnata e praticata, nei seminari.

La figura del sacerdote

L’impressione, spiace dirlo, è che la risposta sia alquanto negativa. Nessuno, sia chiaro, mette in discussione il ruolo e l’importanza del clero, non è questo il punto. Con buona pace dei novatori di ieri e di oggi che si trastullano in progetti di riforma lunari, la struttura essenziale e immodificabile della Chiesa è e resta sacramentale, non democratica, ciò che richiede e implica la gerarchia.

È però un fatto che la formazione del clero, almeno in Italia, risente ancora di una impostazione pre-Vaticano II, un’impostazione cioè che sembra misconoscere che grazie al Concilio è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia dove la Chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo.

Ciò che ha significato una sorta di de-sacralizzazione della figura del sacerdote – cosa che ancora oggi, e non per pochi, è “il” problema – e di affermare al contempo il ruolo del laicato non più ridotto al rango di comparsa o braccio secolare del clero ma protagonista attivo nella vita della Chiesa.

I carismi

Si tratta di una riforma che, pur non avendo tolto nulla al sacerdozio ministeriale che – ripetiamo – era e resta imprescindibile, a distanza di oltre mezzo secolo non è stata evidentemente né gradita né digerita da quanti sono ancora fermi ad una visione del sacerdozio più come potere che come servizio.

Il fenomeno poi è tanto più stridente quanto più si consideri un dato: il fatto cioè che buona parte dei giovani e meno giovani che entrano in seminario proviene proprio da quei movimenti e carismi ecclesiali laicali sorti negli anni del Vaticano II, dove la ricchezza del rinnovamento conciliare ha dato e continua a dare frutti enormi (tra cui un gran numero di vocazioni).

Il timone della barca

Come è possibile allora che ragazzi cresciuti all’interno di quei carismi e in essi sostenuti nel loro percorso vocazionale e formativo (a livello spirituale ma anche livello materiale, è bene ricordarlo), quando poi escono dai seminari e iniziano il loro ministero assumono un atteggiamento e un modo di fare, appunto, clericale – ossia che tende ad operare nel solco della vecchia e superata ecclesiologia “piramidale” – non di rado accompagnato anche da una immotivata e in alcuni casi quasi ostentata presa di distanza dal carisma di provenienza?

Fino ad arrivare alle situazioni da teatro dell’assurdo di quei preti, la cui vocazione è sorta all’interno di un dato carisma, e che poi te li ritrovi essi stessi interpreti di quel clericalismo di ritorno che tra le altre cose ha sempre osteggiato e continua ad osteggiare proprio i movimenti e i carismi laicali, rispetto ai quali il refrain è il seguente: sì, d’accordo, i laici hanno avuto un ruolo importante quando c’è stato lo sbandamento post conciliare, ma ora il loro compito è esaurito, ed è tempo che i preti riprendendo in mano il timone della barca (auguri).

La verità sta nel mezzo

Come se, appunto, fosse tutta e soltanto una questione di potere. C’è solo un problema di immaturità e scarso buon senso (quando non si tratti di malcelata superbia) di Tizio o Caio o c’è un problema più serio “a monte”, che cioè riguarda il modo in cui vengono formati i futuri preti?

Probabilmente, come spesso succede, la verità sta nel mezzo. In ogni caso è evidente che da qualche parte si è creato un cortocircuito. Ed è altrettanto evidente che è su quel cortocircuito che bisogna intervenire se si vuole risolvere il problema. In caso contrario, se le vocazioni continueranno a diminuire ci sarà ben poco di cui rattristarsi. E ancor meno di cui preoccuparsi.

Foto Ansa

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