Il beato Livatino, risorsa preziosa per una magistratura in crisi di credibilità

Così il giudice martire ha mostrato come una fede vissuta integralmente può dare forma al proprio lavoro rendendolo più umano e adeguato. La lezione del presidente della Corte d’appello di Milano

Pubblichiamo di seguito la relazione introduttiva tenuta ieri da Giuseppe Ondei, presidente della Corte d’appello di Milano, al convegno in occasione della mostra sul beato Rosario Livatino allestita a Palazzo di Giustizia fino al prossimo 14 marzo. 

* * *

Buon giorno a tutti. Sono lieto di partecipare con voi all’inaugurazione della mostra sul beato Livatino. Nella mia breve relazione, per motivi di limiti temporali, non tratterò in modo organico e completo della figura del giudice Rosario Livatino, ma svolgerò alcune osservazioni scaturite dal mio imbattermi in questa eccezionale figura di giudice, ben rappresentata dalla mostra oggi inaugurata.

Anzitutto la figura di Rosario Livatino non può essere compresa prescindendo dalla sua esperienza di fede: per lui la fede non era un semplice motivo ispiratore di alcuni nobili valori quali il senso del dovere, la dedizione al proprio lavoro, la solidarietà, l’onestà intellettuale, ma riguardava tutti gli aspetti della vita, li giudicava, li riconduceva ad unità, dava forma alle sue giornate e quindi anche al suo lavoro di magistrato, come emerge dalla mostra. In ciò ben praticando l’insegnamento di san Paolo laddove nella seconda lettera a Timoteo scrive: «Tutta la Scrittura è utile per insegnare… ed educare nella giustizia» (Tm 3,16).

E del resto la sua stessa scelta di restare nel posto assegnatogli, facendo sino in fondo il proprio dovere (con decisione e coraggio, ma anche con umiltà e riservatezza) fino al sacrificio della vita, non è altro che la risposta ad una vocazione, come dimostra l’abituale invocazione “sub tutela Dei” che ha accompagnato tutta la sua vita. Una vita nella quale era giunto non solo ad expressam agnitionem Dei ma a cercare di rendere l’intrinseca innervatura antropologico-etica dell’esperienza religiosa qua talis.

Ed è proprio questo habitus operativus bonus che ha attirato l’odio dei suoi assassini, che lo consideravano “santocchio” perché avevano percepito il pericolo di una fede radicale, testimoniata così apertamente, che faceva scandalo per le conseguenze a cui arrivava. In questo l’analogia con la figura di padre Pino Puglisi e con le ragioni della sua uccisione in odium fidei è impressionante.

Tuttavia non possiamo ignorare che uno degli assassini del giudice Livatino – ossia Domenico Pace – a distanza di tempo dall’assassinio ha scritto: «La mia fede mi aiuta a sperare che il giudice Livatino mi abbia perdonato, perché lo sento vicino, ogni istante è con me e mi aiuta a vivere con forza d’animo la pena infinita che sto scontando».

Ma la particolare ed intensa esperienza di fede che ha costituito la cifra performativa della vita di Livatino non può farci dimenticare che lo stesso Livatino ebbe a ricordare che «non saremo giudicati perché credenti, ma perché credibili», il che significa per un verso che la fede è autentica solo se trasforma la vita e rende capaci di scelte coerenti e coraggiose e, per altro verso, che senza spirito di giustizia non può esserci vera vita cristiana.

Solo se si tiene conto di questo contesto esistenziale si può cogliere la preziosità della mostra odierna intelligentemente organizzata presso il Palazzo di Giustizia, cioè in un ambiente che giustamente individua nella laicità nell’esercizio della giurisdizione uno dei suoi connotati fondamentali. Con la sua vita e con il suo martirio, Rosario Livatino ha, invero, contribuito nello specifico e delicato campo della giustizia, alla costruzione di una società più umana e più giusta, in quanto fondata sulla verità.

Così, proponendo la figura di Rosario Livatino questa mostra rivela la ricchezza di una società in cui le diverse identità in essa presenti sono generative di autentiche testimonianze di servizio al bene comune. Abbiamo bisogno, infatti, in tutti i campi di apertura, di reciproco ascolto e comprensione, di dialogo, di avvicinamento e unità nella diversità: insomma di un punto di incontro dove si scava nel cuore delle questioni aprendosi alle ragioni dell’altro, fecondando il confronto con la coerenza della propria visione ed il rispetto della visione altrui in una dimensione dialogica dove il dialogo deve essere una dimensione dell’essere da riconquistare ogni volta perché, come presuppone la matrice greca della parola, esige la discussione profonda (dià in greco richiama la profondità), serrata e sostanziale dei sistemi di pensiero.

Diventa, allora, interessante proporre un’ipotesi di verifica, nel merito, di quanto fin qui osservato: in punto io credo che la fulgida testimonianza del giudice Rosario Livatino sia ancora oggi di sorprendente attualità oltre che preziosa per comprendere la situazione odierna della magistratura, per valutarne le criticità (oltre che gli aspetti positivi) e per indicare una via di miglioramento.

Per questo mi pare utile declinare il tema della credibilità – così caro a Rosario Livatino – partendo da un dato purtroppo pacifico che solo alcuni sembrano ancora non vedere, vale a dire la perdita della credibilità della magistratura nell’opinione pubblica, giacché sappiamo bene che gli errori di alcuni hanno determinato effetti devastanti sull’immagine della giustizia come istituzione e quindi su tutti i magistrati.

Se guardiamo alla figura di Rosario Livatino possiamo cogliere in positivo quei princìpi, quei valori e quegli atteggiamenti che ne fondano la credibilità e la cui mancanza, nella situazione attuale, può a buon diritto essere individuata, quanto meno, come una delle cause della perdita di credibilità della magistratura. Tanto più che si tratta di valori e atteggiamenti che, in quanto vissuti ancora dalla gran parte dei magistrati, rappresentano l’unica speranza dalla quale partire per ricostruire un’immagine credibile e autorevole della Giustizia.

Orbene, i “pilastri” che fondavano la figura Rosario Livatino come persona e soprattutto come giudice possono così riassumersi.

Anzitutto Livatino aveva il senso del proprio limite e l’umiltà: due virtù che lo inducevano, come comunicano tutti coloro che lo hanno conosciuto, a muoversi diversamente nella propria attività ordinaria, incontrando con umanità le parti ed i difensori, non sentendosi un superuomo, non ponendosi come il giusto nei confronti degli ingiusti; studiando così a fondo e minuziosamente le carte da essere, a volte, più garantista degli stessi avvocati.

E sicuramente questo senso di umiltà gli ha anche consentito di aguzzare l’ingegno, affrontando in modo particolare la stidda e la mafia, in un periodo in cui non erano ancora sviluppati i mezzi di contrasto alla criminalità organizzata, acquisendo una capacità di collegare le indagini e traendo da pochi spunti nuove piste investigative.

Ma Livatino aveva anche la consapevolezza che la legge è un mezzo e non un fine e che nell’applicazione della legge penale si deve sempre tenere conto che la persona non è riducibile solo alle sue azioni perché occorre essere operatori di giustizia non di diritto: la giustizia penale, insomma, vista come umanizzazione della pena e non mera restaurazione dell’ordinamento giuridico violato. Anche a livello ermeneutico il messaggio di Livatino sull’annoso dibattito circa le interpretazioni creative è stato chiaro: «Occorre dare alla legge un’anima», diceva, «ma non piegare la legge alle proprie convinzioni o ad estranee influenze».

Livatino viveva l’imparzialità, la correttezza, l’equidistanza nell’applicazione della legge, rifuggendo da condizionamenti esterni di qualunque tipo, ma anche da atteggiamenti freddamente burocratici così come da artificiosi paternalismi. Aveva la consapevolezza che la credibilità del giudice dipende anche dalla forma della sua vita privata, improntata a moderazione e equilibrio: in punto mi piace ricordare che in più occasioni Livatino ebbe a dire che «l’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella libertà morale e nella fedeltà ai princìpi, ma anche nella trasparenza della sua condotta, anche fuori del suo ufficio, nella libertà e nella normalità delle sue relazioni, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, nella scelta dell’amicizia».

Infine va sottolineato con forza che Livatino non ebbe a strumentalizzare il lavoro per finalità di carriera o di affermazione della propria persona.

Solo il rispetto dei princìpi innanzi illustrati poteva fondare – per Livatino – una reale e sostanziale legittimazione del giudice nella società. «Il giudice», diceva, «deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile, l’immagine di uno capace di condannare, ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società».

Una mostra su Rosario Livatino – piccolo-grande eroe del quotidiano – è, dunque, una risorsa preziosa perché attraverso la conoscenza di una personalità che ha pagato con la vita la devozione alla fede ed ai valori che ne conseguono nello svolgimento del proprio ruolo professionale, costringe ognuno di noi, qualunque sia la funzione svolta e l’incarico rivestito, ad interrogarsi su quale sia il vero scopo del proprio lavoro, su come lo sta svolgendo e, per chi è credente, su quanto la fede dia realmente forma al proprio lavoro rendendo più umano l’ambiente in cui opera e più giusto ed adeguato l’esito del proprio operato.

Dal beato Rosario Livatino, primo magistrato laico martire dobbiamo oggi imparare che la professione di magistrato deve essere esercitata coraggiosamente come missione locale al servizio della Storia «tanto dentro le aule dei tribunali quanto nei meandri più nascosti del cuore umano che egli ha saputo attraversare con discrezione e fermezza per garantire la difesa della legalità».

L’augurio, allora, è che possa accadere anche a noi quanto è accaduto a molte persone che pur in situazioni diverse (e talora opposte) si sono imbattute, sulla loro strada, in Rosario Livatino, cioè vivere l’esperienza di una metànoia, di un cambiamento, di una maggiore profondità di sguardo e di coscienza e, diciamolo, di un maggior coraggio nell’affermare la verità, nell’affrontare i problemi e le sfide alle quali siamo chiamati. Insomma – per usare un’espressione più vicina alla fenomenologia quotidiana – cercare di fare il nostro dovere e svolgere il nostro lavoro con serietà e competenza, senza tirarci indietro e se necessario anche con sacrifico: attività nella quale, in fondo, si sostanzia l’essenza stessa della dignità umana.

Ecco perché è quanto mai attuale la lezione di questo “giudice ragazzino”, una lezione di umiltà che è insieme consapevolezza della grandezza dei valori che ci innalzano e forte monito rivolto alle coscienze dei magistrati di ogni tempo. Una lezione dove l’utopia si sposa con il possibile e diventa profezia feconda che in termini isaiani possiamo così riassumere: «Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre» (Is 32,17).

Exit mobile version