I MIEI DODICI TERRI SCHIAVO

«C'è SEMPRE QUALCOSA CHE SI PUò FARE», DICE GIAMBATTISTA GUIZZETTI, CHE DA DIECI ANNI LAVORA CON MALATI IN STATO VEGETATIVO. «LO DICE LA REALTà E QUEI MIEI DODICI PAZIENTI CHE SONO MIGLIORATI»

«Sono alibi, semplici alibi di chi vuole sbarazzarsi di un problema». Giambattista Guizzetti è responsabile del reparto per malati in stato vegetativo dell’Istituto don Orione di Bergamo. «Sono ormai dieci anni che lavoro quotidianamente con persone nelle medesime condizioni di Terri Schiavo. Quel che accade in America è per me assolutamente incomprensibile», dice il medico a Tempi. Quando questo giornale va in stampa la vicenda della donna di 41 anni, in stato vegetativo dal 1990 cui il marito Michael ha chiesto di poter “staccare la spina”, non si è ancora conclusa. La cronaca dice che anche l’ultimo tentativo da parte dei genitori di Terri, Mary e Bob Schindler, è andato a vuoto. La Corte suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di esaminare il ricorso. Niente hanno potuto nemmeno il presidente Bush e il fratello Jeb, governatore della Florida. Terri sta morendo di fame e di sete.

si girano e sorridono
«Questi malati non hanno bisogno di niente – assicura Guizzetti -, solo di essere curati. Nel nostro reparto l’unica strumentazione tecnologica di cui siamo dotati sono dei sollevatori meccanici. Ogni mattina per vestire ognuno dei nostri “Terri Schiavo” impieghiamo 50 minuti in due. Ciò di cui hanno bisogno queste persone sono quelle semplici premure che ogni mamma riserva al suo bambino». Sulla rivista scientifica Journal of Medicine and the Person, Guizzetti ha scritto che «Il “prendersi cura” di questi pazienti, per i quali nella maggior parte dei casi non si osserva una ripresa dello stato di coscienza, richiede che il medico, l’infermiere, il riabilitatore abbiano chiarificato a se stessi il significato del loro essere mortali, quindi il significato della loro finitezza. Non possiamo mai dire: non c’è più niente da fare. Non c’è mai un momento nell’assistenza ad un malato in stato vegetativo in cui possiamo dire: basta, adesso possiamo fermarci, non c’è più niente da fare. Si tratta di saper trovare la cosa giusta da fare in qualsiasi momento».
C’è un aspetto che al medico italiano proprio non va giù, ed è la superficialità con cui si liquida la possibilità che questi malati possano riprendersi, avere dei miglioramenti, poter dire “io esisto anche se sono in queste condizioni”. La questione dello stato di coscienza è, a livello scientifico, molto controversa perché, spiega il medico, «come possiamo dire che questi uomini non capiscono quello che accade loro intorno?». Guizzetti tiene a precisare che, per quella che è l’esperienza del suo reparto, «ben 12 pazienti su 69 hanno presentato un notevole miglioramento della loro condizione. Cioè, per intenderci: quando li chiamo per nome, loro si girano e sorridono, sono consapevoli». Sono le stesse reazioni che i genitori di Terri dicono essere osservabili sulla figlia.
«Il dolore è il dolore – dice Guizzetti – e le condizioni sono dure e faticose. Però se il dolore è condiviso tra la famiglia, i medici e gli assistenti sanitari, questo può diventare perlomeno “portabile”». Ricorrere a queste fasulle premure ideologiche che, in nome della tenerezza e dell’amore, vogliono sopprimere quelle che sono delle persone, non dei vegetali, «è innanzitutto l’esclusione a priori di quello che non una fede illusoriamente miracolistica, ma la realtà dice: esiste sempre una possibilità».

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