Guerra alla guerra (suonando Bach)

ENFANT PRODIGE AL PIANOFORTE, IRANIANO FUGGIASCO E CITTADINO DEL MONDO, SUONERA' (A MEMORIA) LE VARIAZIONI GOLDBERG AL MEETING. INTERVISTA A RAMIN BAHRAMI

Aveva solo 11 anni quando dovette lasciare l’Iran e quella maledetta guerra, i ricordi dolorosi di un padre imprigionato al cambio di regime e poi perso per sempre. Ne ha solo ventotto adesso, e non v’è paese dove il suo Bach e le sue Variazioni Goldberg non siano ancora conosciute. Ha più di ottanta minuti di memoria, Ramin Bahrami, suona per il mondo e suonerà il suo Bach al Meeting, sotto quel titolo “La libertà è il bene più grande che i cieli abbiano mai donato agli uomini” e lo farà sicuro che all’arte «è affidato il compito di esprimere la libertà, quell’orizzonte senza il quale vivere diventa una prigionia dalla quale è difficile liberarsi».
Lo faccia per tutti i profani di musica classica, dove vive tanta bellezza simile alla vertigine che lei prova suonando Bach?
La musica di Bach è un’azione di umiltà di fronte a un bene, che si trasmette in un linguaggio comune a tutti i popoli, a tutte le razze, a tutte le culture; un linguaggio che pochi come Bach sono riusciti a realizzare. Pensi a una luce infinita, alla serenità del sentirsi amati, questa è la chiave dell’opera di Bach. Quando per 60 o 80 minuti – perché ci sono interpretazioni diverse delle Variazioni Goldberg, l’opera che offrirò al Meeting – penso alla traduzione, pari passo, italiana, “variazioni della montagna d’oro”, cosa chiaramente non pensata né voluta da Bach (prendono il nome da un allievo di Bach, Johann Gottlieb Goldberg che eseguiva le note scritte al maestro per combattere l’insonnia dell’ambasciatore di Russia, ndr), e che però suscita davvero la risalita a una montagna, un viaggio e un’esperienza da condividere con altri in una festa comune. In questo chiedo a Dio la forza di non essere altro che un tramite, un piccolo messaggero di un messaggio enorme e meraviglioso, lascio le mani totalmente libere, mi accosto alla musica come fossi un agnello indifeso.
Non torna al suo paese da 17 anni, vive a Stoccarda e la sua famiglia ha origini tedesche, russe, turche e persiane. Ha studiato a Milano, Imola, ha ricevuto la cittadinanza onoraria da Catania e si adopera in tournee intorno al mondo. Qual è la vera patria di Ramin Barahmi, a quale luogo si sente di appartenere?
La mia patria è un luogo libero, un mondo pacifico dove certi interessi lascino spazio ad altri valori. Per questo la mia patria non l’ho ancora trovata, nonostante esistano uomini come il defunto Papa, o l’attuale Benedetto XVI o lo stesso don Giussani capaci di dirigere verso questa patria il mondo di oggi. Ma il mondo non sa ascoltare, si barcamena nell’interesse di cose che non voglio elencare, ma che certo, rendono l’artista un po’ vagabondo, senza casa.
Che ruolo ha giocato la guerra che ha vissuto fin da bambino col suo accostarsi alla musica?
Ho avuto la fortuna di potermi accostare alla musica fin da piccolissimo (i dischi del padre che suonava il violino e amava Von Karajan, le prime note sul pianoforte grazie alla mamma, l’ammissione a otto anni alla Hchschule fur Musik di Francoforte, ndr) e posso giurare che lì in mezzo, guardando i missili, guardando la gente che moriva, non ho mai perduto la fiducia nella vita, la certezza che la guerra non potesse essere l’ultima parola sulla vita. E la musica, questa forza magica mi dava la forza di combattere senza paura. Suonavano gli allarmi e tra la gente che fuggiva io mi sedevo al pianoforte a comporre, facevo la guerra alla guerra con la musica, facevo risuonare un’altra voce sopra quella delle bombe. Poi gli angeli sono arrivati veramente, e hanno avuto il volto dei miei maestri, da Piero Rattalino, Andràs Schiff, Robert Levin, a molti altri, maestri di musica come di umanità.

Exit mobile version