Governo sulle nuvole

Non abbiamo una politica estera né una economica. Non si riescono a fare riforme per la scuola, la famiglia, la sanità, le imprese. Se non fosse per le tasse ci sarebbe da chiedersi chi comanda in Italia I consensi infernali e i propositi celestiali dei serafici ministri di un esecutivo etereo

Romano Prodi
Il carattere. Chi ne ha familiarità come i suoi amici del Mulino di Bologna lo descrive come «un maratoneta. Quando corriamo, lui rende molto di più sulle distanze lunghe, e non è solo un modo di dire. È tenace e duro, è uno che non molla». Se ha delle difficoltà è perché «non è nato politico. Ci è stato cacciato a calci negli stinchi da Nino Andreatta». Comunque «è un grande incassatore». Comunque «è un buon assemblatore, vediamo se basta». Lui, di suo, ci mette aria pacifica e brontolii bofonchiati che fanno propendere i suoi sostenitori a dipingerlo come uomo perbene e di cromosoma democristiano, spinto alla mediazione più per natura che per necessità. I suoi detrattori, invece, covano un retropensiero: sotto l’apparente bonomia risulterebbe un carattere risentito e vendicativo. Forse non c’è sintesi migliore del titolo dell’editoriale di Eugenio Scalfari apparso su Repubblica il 28 gennaio 2007: “Il premier ha la testa più dura di Zidane”.
Parole. Ecco quelle che ripete con maggiore frequenza: discontinuità, convergenza, cammino comune, collegialità, compattezza, svolta, dialogo, serietà, serenità, responsabilità, gioco di squadra, dodecalogo, conclave, non vedo il problema, un pochino di felicità, la Tav si fa. Ecco quella ripetuta più spesso dai suoi alleati e avversari politici: fattore C.
Durata. Quando è stata proclamata la vittoria in piazza Santi Apostoli l’11 aprile 2006 il grido è stato “viva Prodi!”, ma il sussurro accompagnato al movimento del gomito “quanto dura?”. Secondo i bookmakers inglesi il governo sarebbe rimasto in carica due anni. L’agenzia Betway pagava i 24 mesi 1,29, la quota più bassa. Una durata tra i 6 e i 24 mesi era retribuita tre volte, meno di 6 mesi dieci volte. Non si accettavano scommesse per durate superiori ai due anni. Per Prodi ogni elettroshock di crisi è di stimolo per ripetere che «il governo è stabile, la maggioranza è più unita e la Finanziaria sta dando i suoi frutti». Così come ogni passaggio al Senato è incorniciato dalla dichiarazione «siamo autosufficienti, si riparte». Come possa durare, rimane tuttavia un mistero. Secondo Pierluigi Battista «Romano Prodi vive di una forza enigmatica che paradossalmente trae energia dalla sua debolezza. è forte perché è debole. O meglio, trasforma la debolezza in un fattore di forza». Più prosaicamente, secondo la confidenza che lo stesso Prodi rilasciò al Time magazine: «Come evitare il collasso del governo? è semplicissimo: con lo spettro di nuove elezioni».
Raffreddori. Turigliatto e Rossi fuori, Pallaro e Follini dentro, De Gregorio con la Cdl. Fin qui il ponderabile. Poi c’è l’imponderabilità di raffreddori e sciatiche, i peggiori nemici di questa maggioranza all’aspirina in mano a sette ottuagenari senatori a vita.
Alleati. Nell’autunno del 2006, durante un viaggio a New York sospirò: «Non è facile, ci sono tanti partiti. Si è sempre metà primo ministro, metà assistente sociale». In effetti non è semplice tenere incollata col mastice una maggioranza che va da Caruso a Dini, da Franca Rame a Follini. In più ci si mette pure quel buontempone di Pannella a mandare in diretta via Radio Radicale il conclave di Caserta. Tutti litigano con tutti, «si ricattano» scrive con maggior chiarezza Giampaolo Pansa. Lui pone rimedio come può, come quando, prima del voto sull’Afghanistan, minaccia: «Sulla politica estera non ci devono essere malintesi». O sulla base di Vicenza quando scantona: «è solo un problema urbanistico e locale». Ma poi, quando gli animi si incendiano, blocca i ministri che vorrebbero partecipare al corteo. Se, come Pecoraro Scanio o Pollastrini al Gay pride, in piazza ci vanno lo stesso si proclama «perplesso». Una via d’uscita la cerca sempre, come per il caso Welby su cui si proclama «contro l’eutanasia ma anche contro l’accanimento terapeutico». Funziona? Spesso sì, anche se ogni tanto qualcuno sbotta. Antonio Di Pietro a Libero il 17 dicembre 2006 dice: «Se fai come Ponzio Pilato, pigli critiche lo stesso e non ottieni nessun risultato. Bisogna smetterla di tergiversare. Prodi dovrebbe essere più decisionista». Ancora più sorprendente è rileggere il titolo dell’Unità del 29 dicembre; in un articolo che trae un bilancio dell’operato del governo, titola: “Sette mesi un po’ così. Bene l’inizio, poi i fischi”.
Programma. Un modo per mettere d’accordo tutti ci sarebbe: rispettare il programma. Il problema è capire cosa dice. Ci pensa allora Giulio Santagata, all’attuazione del medesimo preposto con cotanto di ministero. S’inventa l'”Albero del programma”. Ecco come lo presenta il Corriere della Sera: «Un grafico di cinque metri e 46 centimetri in formato originale. Dieci metri e 92, invece, per chi lo stampa su carta A4 dal sito del governo. Come un platano vero, di legno, e con tutte le foglie: 1.464 (millequattrocentosessantaquattro) rettangolini di sette colori diversi, che stanno a rappresentare sette livelli diversi di lettura, ognuno dei quali contiene una voce».
Finanziaria. La Finanziaria di Prodi è stravolta dalla sua maggioranza a una media di 15 emendamenti quotidiani. Alla fine ne esce un’enciclopedia di 1.364 commi su cui il governo pone la fiducia. Facendo due conti si nota che le commissioni parlamentari hanno potuto verificare solo una trentina dei suddetti commi. Prodi afferma che «è buona davvero, tant’è che scontenta tutti». Ma non quegli amministratori pubblici colti in flagranza di reato e che tra i commi della manovra beneficiano di un rigo che gli evita la gattabuia. Più in generale, del parto di Padoa-Schioppa sono scontenti tutti gli italiani. Persino Ciampi protesta: «Non c’è una missione». Ai lamenti di Confindustria Prodi risponde: «Si comporta come un partito». Ai sindacati, prima Cisl e Uil, ma poi anche Cgil, Prodi non replica con ugual durezza.
Chiesa. Peggio di così non potrebbe andare. A parte certe sfortunate sortite («Ma a difendere il Papa ci pensano le guardie svizzere», risponde ai giornalisti che gli chiedono degli attacchi al Pontefice dopo le parole di Ratisbona), è il continuo irrigidirsi su tematiche inerenti la famiglia a logorarlo. Lui, un cattolico adulto che si fa spesso raffigurare nell’atto di ricevere la comunione. è guerra aperta, e lo si capisce anche dal fatto che, a seguito del recente incontro con Ruini e Bertone, se ne è uscito con un «tutto benissimo, tutto chiarito» confidando nella solita taciturna discrezione dei vescovi restii a portare in piazza i dissensi con i politici. Invece adesso di dissensi gliene portano in piazza un milione col Family day.
Se lo dice lui. «Sapete qual è il nostro problema? Che siamo tutta gente seria, abituata a lavorare nelle aziende. Nessuno viene dalla tv o dal marketing. Non vendiamo patacche. Insomma, siamo troppo seriosi», Silvio Sircana, Corriere della Sera, 15 dicembre 2006.

Padoa-Schioppa
è uno di quelli che aveva promesso di «far piangere i ricchi». E che da proletario qual è, giustamente, prima di scrivere la Finanziaria che ha fatto piangere tutti, è andato dal professor Guglielmo Epifani. Tal che l’organo proletario scrisse: «Padoa-Schioppa supera il test Cgil» (Il Sole 24 Ore, 9.7.06). Vinciamo il Mundial? Bè, spiega il tecnico che dirige il ministero dell’Economia, «dal Mondiale ci aspettiamo effetti positivi». Uscito dall’esame con Epifani e dall’economia col Mondiale, Padoa-Schioppa mostra la faccia feroce a Francesco Giavazzi. Colpevole di avergli dato un po’ del quaquaraquà. Segue circolare del ministro internauta al bel mondo del business: mi raccomando, chillo esprime solo «il bisogno del Corriere di riconquistare le copie perdute». Che poi Giavazzi si incazza («sono esterrefatto dal leggere la Sua meschina insinuazione») e rincara la dose: «Quali sono stati i passi concreti che Ella in questi mesi ha compiuto?». Però, ammettiamolo, ce n’è solo uno più bravo del Peter Pan dell’economia a svolazzare in giro piangendo miseria. «Io sono il capitan Cannavaro», racconta Prodi a una sagra della porchetta, «Padoa-Schioppa è il portiere che deve parare i buchi». Buchi? Già, «i conti sono molto critici» piange il governo. Già, lo capiscono tutti, dice Di Pietro, «mica Padoa-Schioppa può andare a rubare». Già, mica può andare a rubare. è così che gli venne l’idea di mettere le mani nel portafoglio degli italiani. Intanto che scrive la stangata gli vengono pensieri bellissimi: «Non capisco le lamentele dei ricchi»; «Cambierò le pensioni per aiutare i giovani»; «Il 90 per cento pagherà meno tasse»; «Il ceto medio dovrebbe far festa»; «Non aumenterò mai la spesa pubblica». Pensieri stupendi. Ma così stupendi che per il Financial Times «Padoa- Schioppa è il peggior ministro europeo». Mica buffetti. E mica può andare a rubare uno che si consola con «Io a lezione da Quintino Sella. Per il rilancio servì anche la tassa sul macinato». A questo punto gli italiani capiscono. E si foderano il didietro con dei bei mutandoni di ghisa. Poi arriva Gesù bambino e si scopre «il boom delle entrate fiscali». Vuoi vedere che mica-può-andare-a-rubare non ce
l’ha contata giusta? E infatti Gesù rivela che il buco non c’è più. Bene. Ma allora che c’azzecca una Finanziaria da 35 miliardi quando ne bastavano 15? C’azzecca perché, sapete cos’ha fatto il furbetto in compagnia del resto del governo?, anziché rivedere al ribasso le stime del deficit pubblico (3,8 per cento secondo Tremonti), lui le ha profetate al rialzo (4,1-4,6 per cento). Risultato: il deficit reale è del 2,4 per cento. Però, purtroppo, guarda com’è il caso certe volte, il dato s’è saputo solo a Finanziaria fatta. Già, ma mica poteva andare a rubare le previsioni giuste, chillo. Conclusione: da quei 35 miliardi di manovra, il governo ci ha cavato un bel tesoretto. Per Luca Ricolfi solo «di quattrini da ridistribuire c’è una decina di miliardi». Già, mica Padoa-Schioppa può andare a rubare per sfamare l’appetito del suk che è al governo.

Massimo D’Alema
Che ne è della declamata astuzia politica di Massimo D’Alema, della lodata intelligenza strategica, dell’asserita sua statura di statista? In nove mesi di governo da ministro degli Esteri il gallipolino ha patito frecciate e colpi che stroncherebbero il prestigio e la carriera del più sperimentato dei politici. Bocciato dalla sua propria maggioranza in Senato, smentito dal Dipartimento di Stato Usa, criticato dagli alleati dell’Italia per aver ceduto al ricatto dei talebani, ingenuo al punto da consegnare la dignità dello Stato e la sua personale nelle mani di Gino Strada, umiliato dal presidente della Camera che loda «la diplomazia dei movimenti» a scapito di quella di cui lui ha la responsabilità, marginalizzato dal segretario del suo partito che auspica la partecipazione dei talebani alla Conferenza di pace per l’Afghanistan e dal sottosegretario del suo ministero che intrattiene rapporti telefonici coi terroristi palestinesi, entrambi senza informarlo, D’Alema assomiglia sempre più a un San Sebastiano della politica italiana. Le famose battute sferzanti sono diventate arroganti, le celebrate risposte taglienti si sono trasformate in scatti isterici, l’ostentata sicurezza sfiorisce in malcelato imbarazzo. Certo, anche il miglior attore sfigurerebbe nella compagnia teatrale dell’esecutivo Prodi. Ma D’Alema ci ha messo del suo: una politica sbagliata attira su di lui incidenti a catena, e non viceversa. Ha flirtato con gli estremisti islamici nella presunzione di recuperarli alla politica istituzionale e ha usato il multilateralismo come uno strumento per arrivare al multipolarismo, cioè a un mondo dove gli Usa contano di meno, credendo di poterlo fare senza che Washington si accorgesse di nulla. Bobo Craxi telefona al leader di Hamas come il suo ministro ha passeggiato coi deputati di Hezbollah. Il mondo multipolare è fatto proprio così: lo Stato italiano prende botte in testa indifferentemente da Gino Strada e da Condoleeza Rice, dal mullah Dadullah e dai governi britannico, canadese e olandese.

Pierluigi Bersani
Pensi a Pierluigi Bersani e immediatamente associ il nome a un concetto: liberalizzazioni. Novello Adam Smith, il ministro diessino vuole sbloccare i gangli sclerotizzati del mercato e aprire alla concorrenza: per farlo ha dato vita a un decreto che sancisce vitali novità come il parrucchiere aperto il lunedì, le pompe di benzina nei supermarket e l’annullamento dei costi di ricarica dei telefonini. Una rivoluzione, tanto apprezzata che lo scorso 22 marzo è stato necessario porre la fiducia alla Camera per evitare sorprese. E gas, energia, poste, sistema bancario? Quelli dopo, si comincia dalle priorità. Ha definito gli industriali «incapaci di raccogliere le sfide della liberalizzazione e dell’innovazione». Margaret Thatcher applaude. Ma se poi salta fuori il rischio che Telecom sia ceduta e che l’opa di Swisscom su Fastweb vada in porto, ecco che tornano i termini da 1992: «Siamo ben oltre il rischio di svendita». Trattasi di sindrome da capitalismo a senso unico: noi possiamo andare a prenderci Endesa e Abertis, ma guai se qualche straniero compra le nostre aziende. Se uno svizzero ci offre lo stesso servizio di Fastweb e a prezzi migliori dovremmo essere contenti, no? Assolutamente no, l’Italia agli italiani come si diceva qualche decennio fa. Riformista e illuminato, il nostro eroe quando vede che le cose in famiglia vanno male guarda Oltremanica all’eroe Tony Blair: «Quando si parla di nuove politiche e nuovi partiti bisogna guardare alle problematiche del nuovo secolo, non a quelle di quello precedente. L’inquinamento è la prima vera emergenza». Oplà, un po’ di Kyoto e i guai di casa nostra sono seppelliti da una tonnellata di politically correct. Peccato per lo strabismo che lo colpisce quando da Londra arrivano altri segnali. L’operatore aeroportuale Baa è passato agli spagnoli di Ferrovial, l’operatore di telefonia O2 è stato ceduto all’iberica Telefonica, l’azienda del gas Boc è terminata in mani francesi, il colosso energetico Scottish Power è stato scalato dagli spagnoli di Iberdrola, la banca Abbey National è finita sotto l’ombrello del Banco Santander, il leader del tabacco Gallaher è stato acquistato dalla giapponese Japan Tobacco Inc., il gestore delle acque Thames Water è stato comprato dai tedeschi di Rwe. Gordon Brown, ad oggi, pare non aver invocato il rischio di svendita.

Livia Turco
Affrontando tutto con mascella grintosa e ciuffo granitico, la ministra della Salute Livia Turco è una che gronda spirito di condivisione da tutti gli artigli. Livia è tutta una vita che è impegnata nella conciliazione degli opposti. Già a partire da se stessa, che è cattolica e comunista, che è femminista e quotarosista, pur portando in giro quell’aria mascolina e muscolare da Storace con la permanente. Per lei è stato un anno sfortunato, da re Mida della sfiga. Non si capacita del fatto che, dopo che ha ascoltato tutti e fatto di testa sua, poi gli altri non siano d’accordo. Ha promesso una sanità nuova e ha reintrodotto il ticket. Ha garantito che non avrebbe praticato lo spoil system e poi ha sostituito il direttore del Sant’Elena Francesco Cognetti con l’amica Paola Muti, e da Scalfari a Totti, da Verdone a Veltroni è stato un coro per reintegrare il luminare. Ha introdotto l’epidurale promettendo che «così le donne non avrebbero partorito più con dolore», e le femministe si sono inferocite per l’avviamento della sperimentazione della Ru486. Ha proclamato che la legge 40 «non necessita di ritocchi» e poi s’è ritrovata mezza Margherita contro per aver affidato a Maura Cossutta la revisione delle linee guida. S’è detta contraria all’eutanasia e ha incassato i fischi dei radicali e il plauso dei cattolici. S’è detta favorevole al testamento biologico e ha ingoiato i rimbrotti dei cattolici e l’ovazione dei radicali. S’è commossa per Welby tanto da incaricare il Consiglio superiore della sanità di studiare il caso, ma appena il tempo di esser informata che non era accanimento terapeutico, neanche il tempo di studiare una strategia condivisa, che già glielo avevano schiumato. Aveva appena dichiarato alle agenzie che i farmaci da banco «non saranno venduti dalle cooperative» che già sugli scaffali delle Coop vendevano le supposte accanto ai crackers. Con il decreto sulla cannabis è riuscita a mettersi contro tutte le comunità terapeutiche, tutto il centrodestra, metà centrosinistra, metà famiglia Serafini-Fassino, e persino quel fumato di Caruso che le ha ricordato che «le sue tabelle sono inutili e velleitarie. E adesso il governo spaccia droghe tremende come il Ritalin».

Beppe Fioroni
Poco prima delle elezioni aveva tratteggiato al Giornale «una visione integrata del sistema scolastico, che garantisca pluralità e doveri a scuola pubblica e privata»; nella prima intervista da ministro ha affermato che il suo impegno è «rilanciare la scuola pubblica». Impegno ribadito poco dopo a Barbiana, senza pensare che si trova nella più celebre scuola privata d’Italia. A Palermo raccoglie ovazioni annunciando di voler ripristinare l’aggettivo «pubblica» nella denominazione del suo ministero, ma Italia oggi lo becca in castagna e ricorda al mondo che l’aggettivo era stato spazzato all’epoca di Berlinguer. Sotto l’occhio torvo e preventivamente minaccioso dell’Unità (“Caro Fioroni, la scuola ti guarda”, 30 maggio, quando ancora non aveva avuto tempo di muovere un dito), spiega al Corriere che «la scuola è un servizio pubblico a prescindere da chi lo eroga». E all’Unità rimbecca: «I soldi alle scuole private è un luogo comune, folklore. La legge 62 sulla parità l’ha fatta il governo D’Alema». Pressato tra Padoa-Schioppa e i sindacati promette insieme di diminuire gli organici e di aumentare il numero degli insegnanti, e per raccogliere i quattrini propone di installare sui tetti degli istituti impianti fotovoltaici per produrre la corrente necessaria alla scuola e magari rivenderla. Qualcuno gli fa notare che l’idea costerebbe sui 2,5 milioni di euro cadauno. Ma la partita decisiva, quella sul “doppio canale” è ancora tutta da giocare. Lui inclina per una soluzione ragionevole, sa il bene che questi corsi stanno facendo; gli ideologi del suo schieramento lo incalzano, fanno del “tutti a scuola” una bandiera di uguaglianza, che importa se poi i ragazzi scoppiano: se resiste, ministro Fioroni, le perdoniamo tutto.

Rosy Bindi
Maria Rosaria Bindi è più cattolica del Papa, almeno secondo lei. Non si capisce perché le abbiano affidato il ministero della Famiglia e non invece quello che più le compete, quello degli affari religiosi. Non passa giorno che Dio manda in terra che lei non esterni su fede e precetti, non benedica qualche provvedimento governativo, non faccia girare i turiboli a qualche monsignore. Per la famiglia non ha fatto nulla, però molto si è impegnata per aggiornare il catechismo della Chiesa cattolica. Al Santo Padre ha ricordato che «l’elenco dei princìpi non negoziabili è lungo. Ma, come i talenti, anche i princìpi a volte non si difendono con l’ozio, ma si investono, si trafficano, si negoziano, per trarne maggiore frutto». Alla Chiesa tutta ha detto «di essere in ascolto» ma si è augurata che «sappia suggerire senza imporre, correggere senza condannare». Al cardinale Ruini, che gli ha mandato una cartolina via editoriale Avvenire con sopra scritto “Sui Dico non possumus”, ha risposto con un sms: «Non conosco il latino». Ai leader delle associazioni cattoliche ha rammentato che le idee contenute nel manifesto “Più famiglia” sono «pericolose» e che, fossero stati più compenti, si sarebbero accorti anche loro, come Stefano Ceccanti, che i Dico incarnano «quel che San Matteo dice nei Vangeli». Se alla fine si faranno i benedetti Dico, Maria Rosaria si augura che «non vengano cambiati né da zeloti né da zelanti». Comunque vada a finire quest’esperienza politica più mistica che ministeriale, di certo Maria Rosaria potrà sempre fare un pensierino su quelle parole che le ha dedicato Vladimir Luxuria: «Rosy sa mantenere la sua fede e il suo essere cattolica un fatto privato. Sarebbe perfetta come presidente della Repubblica». Opzione da non scartare, vedi mai che al prossimo conclave non eleggano Maria Rosaria, ma qualche altro incompetente.

Clemente Mastella
«Ho sempre detto che sui Dico il governo non può cadere, ma oggi comincio ad avere le mie perplessità». Così Clemente Mastella il 10 marzo scorso alla “Festa sulla neve” dell’Udeur. Una retromarcia, quella del ministro della Giustizia, che più di ogni altra dipinge la dura vita che l’uomo di Ceppaloni è costretto a vivere da quando è al governo. Va ad Annozero e viene messo nel mirino da Vauro: si alza e se ne va, come un Berlusconi qualsiasi. Investe tutta la sua energia residua nel Family Day organizzato per contrastare un’iniziativa del governo di cui è esponente e quasi si ritrova i gay in piazza con lui. Tira brutta aria nel governo, occorre non tirare troppo la corda? Detto fatto, si cambiano ancora i toni in meno di 24 ore: «Vorrei che fossimo un po’ più sereni tutti quanti nell’esprimere le nostre valutazioni. Non è una guerra di religione. Se le discussioni hanno come elemento primario le ricadute all’interno dei partiti, sono molto spiacevoli». Presenta sette mesi fa un decreto sulle intercettazioni e scoppia il finimondo tra vallette, politici, paparazzi e umanità varia. «Se il mio ddl fosse in vigore non ci sarebbe stato nessun caso Sircana», ha tuonato dal salotto televisivo di Porta a porta dimenticando che nel tritacarne della procura di Potenza sono finiti in tanti e che non bisognerebbe invocare il diritto a non essere sputtanati solo per gli amici che «sbagliano strada in una sera di mezza estate». Ma lui è così, definisce l’indulto un atto di coraggio ma non dimostra lo stesso coraggio nel dire chiaro e tondo che l’Italia non ci pensa nemmeno a chiedere l’estradizione dei 26 agenti della Cia implicati nel rapimento di Abu Omar. No, lui prende tempo e attende la decisione della Consulta sul conflitto sollevato dal governo in merito a una presunta violazione del segreto di Stato: si sa, quelli della sinistra radicale sono suscettibili e prima di rischiare un altro Turigliatto è meglio andarci cauti. Altro che Dico. In fondo la Casa Bianca capirà, anche Oltreoceano tengono famiglia. Come a Ceppaloni.

Giovanna Melandri
È il ministro che ogni ragazza vorrebbe essere, visto che in neanche un anno da titolare dello Sport e delle politiche giovanili ha già avuto incontri ravvicinati con i giocatori della Nazionale e Valentino Rossi, scelto come testimonial del codice etico messo a punto da ministero e gestori di locali notturni per contrastare le stragi del sabato sera. Il trionfo dell’Italia mondiale lo ha festeggiato in uno spogliatoio pieno di atleti in mutande. Lì si alzò il coro all’indirizzo di Giovanna «Ollellè, ollallà, faccela vedè, faccela toccà…». «Cosa avete capito? Intendevano la coppa del mondo!», rispose lei piccata ai giornalisti maliziosi, con una ritrosia che neanche una teodem. Nei ritiri a Coverciano si era fatta ambasciatrice in infradito sotto la pioggia del sostegno del Governo al mondo del pallone appena travolto dallo scandalo Calciopoli. Tra calcio marcio e violenza negli stadi si muove a colpi di codici etici e provvedimenti severi, con la leggiadria e la decisione di una nata a New York e domiciliata al Testaccio. Col suo mentore Walter Veltroni condivide l’accusa di presenzialismo. Una bella conquista per un ministro senza portafoglio che sembrava destinato a far l’apostrofo rosa nell’esecutivo. Più di qualunque Rosanna Lambertucci, si preoccupa della salute dell’italico popolo e, mentre promuove la detraibilità di un pugno di euro per le spese della palestra, bacchetta il mondo della moda, reo di far sfilare in passerella spot viventi dell’anoressia. E giù un altro codice etico. Di autoregolamentazione, ovviamente, ché imporre le cose è così di destra. Trova il tempo per entrare a gamba tesa su Hillary Clinton per l’incauto sostegno alla guerra in Iraq, offre un assist alla Veronica Furiosa che scrive a Repubblica, dribbla uno scandaletto di metà maggio per una presunta baby sitter irregolare, si libra in un gioco pericoloso con Marcello Lippi, che secondo i maligni voleva licenziare per la sola colpa di avere un figlio coinvolto in Calciopoli. Più che le critiche degli avversari, la preoccupano le attestazioni di stima del popolo sbagliato. Così nega più e più volte di essere stata ospite in Kenya nella villa dell’impresentabile Flavio Briatore, finché le foto dei suoi balli scatenati in caftano bianco non finiscono sulle pagine di Chi. E neanche per colpa di Corona. Lei non replica, è persino costretta a sopportare la signorilità del geometra di Cuneo: «È una donna in gamba, nata a New York, open mind».

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