Gli italiani ,panda del 2000

Le curve demografiche non lasciano dubbi: entro il 2050 gli italiani saranno il 30% in meno e a questi ritmi il nostro è un popolo a rischio estinzione (visto che i nostri governanti non se ne occupano speriamo nel Wwf). “Raccogliamo i frutti di una politica che considera la famiglia un lusso”. “Una classe politica che non si preoccupi di simili fenomeni epocali è irresponsabile: pensate cosa sarà l’emergenza influenza quando il 30-40% della popolazione avrà più di 65 anni”. Tavola rotonda sul futuro italiano con Giancarlo Blangiardo, docente di demografia a Milano e Renzo Gubert, senatore e docente di sociologia a Trento

L’allarme lo aveva già lanciato l’anno scorso il Wall Street Journal quando parlò delle “catastrofiche prospettive demografiche italiane”. Ora, l’allarme è ripreso dal settimanale britannico The Economist. Dai rapporti sull’andamento demografico mondiale dell’Onu e di Eurostat, anticipati nei giorni scorsi, infatti, emerge un quadro più che preoccupante per la (mai come oggi) vecchia Europa e in particolare per l’Italia. Secondo Eurostat, i cittadini dell’Unione europea nel 1999 sono arrivati a 376 milioni, un milione in più rispetto al 1998 con un saldo attivo tra nascite e morti di 266mila unità, il più basso dalla Seconda guerra mondiale. Ma il rapporto Onu, atteso per marzo, che ha concentrato la sua analisi per l’Europa su cinque paesi europei, rileva per l’Italia tassi di fertilità tanto bassi (in media, un numero di figli per coppia inferiore a due) che per il 2050 la popolazione italiana, da 57 milioni, si ridurrà a 41: una diminuzione di quasi il 30% della popolazione attuale.

“Si tratta di previsioni serie – spiega Giancarlo Blangiardo, docente di demografia alla facoltà di Scienze statistiche all’università di Milano Bicocca – elaborate proiettando negli anni la popolazione esistente, tenuto conto dei rischi di morte e delle prospettive di vita oltre che del saldo attivo di immigrazione. Il punto è proprio che il basso tasso di natalità odierna inciderà sulle prospettive di natalità future: il fatto di avere oggi 500-550mila nati l’anno, invece che 1 milione come negli anni ’60, significa che tra 25 anni avremo 500-550mila potenziali genitori invece di 1 milione. E se oggi che sono in età fertile le generazioni da 1 milione di nati l’anno i tassi di natalità sono questi, è ragionevole prevedere che in futuro avremo a una media di 300mila nascite l’anno. Con un invecchiamento della popolazione che porterà a 800-900mila morti l’anno, con una perdita complessiva di 500-600mila abitanti l’anno. Siamo un popolo quasi certamente destinato al ridimensionamento e certamente all’invecchiamento: del resto siamo stati il primo paese al mondo con più anziani che giovani.”.

Veltroni don’t care Un popolo destinato, quindi, a una dolce morte cullato dalle note di “Imagine” e dalle fiorite suggestioni oniriche di Veltroni e dei governanti diessini. I quali, a differenza di quanto recitava lo slogan del congresso al Lingotto, non se ne occupano. Chi, invece, se ne è sempre occupato è Renzo Gubert, docente di sociologia all’Università di Trento e senatore eletto nel Cdu e poi, dopo la migrazione di Buttiglione nel centro-sinistra, passato nel gruppo misto come rappresentante della formazione trentina Il Centro-Unione popolare democratica: “Raccogliamo i frutti delle politiche sviluppate dagli anni Settanta in poi che non hanno riconosciuto alcun sostegno alle famiglie che generavano figli. Non si tratta di sovvenzioni o assegni di povertà, ma di una politica fiscale più equa. A parità di reddito nominale, infatti, in Italia l’imposizione varia pochissimo e perciò chi ha figli a carico, e di conseguenza una minore capacità contributiva, in proporzione paga più imposte. La Costituzione invece prevede che la contribuzione fiscale tenga conto della capacità contributiva ottenuta dalla deduzione dal reddito del minimo vitale dei figli. Anche in occasione dell’ultima finanziaria ho presentato un emendamento in materia, ma non c’è nulla da fare”.

“Trovo assai pericoloso – spiega ancora a Tempi il professor Blangiardo – che una classe politica che intende governare il paese nei prossimi trent’anni non si interroghi su trasformazioni demografiche epocali che in termini di gestione politica avranno conseguenze drammatiche. Di solito si pensa alle pensioni, ma consideriamo anche il problema della sanità: se il 30-40% degli italiani arriverà ad avere più di 65 anni, una banale influenza stagionale, per restare alla cronaca, comporterà la necessità di vaccinare il 30-40% della popolazione o, in altri termini, avere 12-15 milioni di persone a rischio di ricovero. E stiamo parlando dell’influenza. In generale quali saranno i costi per la sanità? E quali le conseguenze per la produttività del paese? Non solo l’Italia avrà circa 15 milioni di soggetti in età lavorativa in meno, ma soprattutto avrà una forza lavoro mediamente più anziana. Il che significa un costo del lavoro più alto e meno disponibilità al cambiamento e all’innovazione”.

Vuoi un figlio? Allora paga In realtà i figli, più che una ricchezza per tutto il paese, sembrano considerati un lusso alla stregua di una fuoriserie. “Sì, salvo che non ci si trovi sotto la soglia di povertà – spiega Gubert che, tra l’altro è padre di nove figli – allora si hanno le sovvenzioni. Il che è anche giusto, ma si rischia di cadere nel pauperismo senza incidere sul problema. In Francia tra le due guerre il problema della denatalità era gravissimo ma non venne affrontato con una semplice politica di sostegno alla povertà: fu applicata una politica fiscale sul quoziente familiare”.

Ovvero investimenti a lungo periodo come spiega il professor Blangiardo: “Bisogna uscire dalla logica degli interventi emergenziali: si scopre che nel 2005 ci sarà una gobba previdenziale e si introduce una norma che ne attenui gli effetti in attesa degli eventi. Tra le risorse di un paese, oltre alle autostrade e alle ferrovie, c’è anche il capitale umano che è un bene soggetto a logorio e ricambio e, quindi, va tenuto in efficienza in termini quantitativi e di età. Certo non si può costringere la gente a fare figli, ma si possono creare le condizioni perché chi ha deciso di farlo non vi rinunci per mancanza di mezzi economici, casa e asili. Questo non può che essere un obiettivo primario di una classe politica moderna”.

Padre, madre e un figlio e un po’
Ma a questi motivi economici si uniscono certamente anche fattori culturali decisivi. “Per molti anni – continua Gubert – si è concepita la libertà sessuale come libertà dal generare e anzi chi faceva molti figli incorreva nelle ironie dei più. È cambiata l’idea stessa di famiglia. Basta pensare ai criteri che guidano l’edilizia popolare: al massimo le case hanno una stanza in più per un figlio extra, ma le misure di cucine e soggiorni rimangono standard. Anche l’edilizia ha ormai definito che la famiglia media è di due figli. E forse anche meno”.

Più che la rinuncia ai figli, secondo Blangiardo il punto è il continuo rinvio della loro nascita: “Le giovani coppie, per via della maggiore scolarizzazione oltre che per problemi economici, si formano più tardi. Il processo di fecondità diventa buono perciò alla soglia dei 30 anni. Se si pensa che le donne difficilmente fanno figli oltre i 37-38, è chiaro che il periodo realmente fecondo è ridottissimo. Inoltre le giovani coppie per vari motivi tendono a rimandare la nascita del primo figlio e di conseguenze quella di un eventuale secondo che spesso finisce per non arrivare mai. I motivi sono economici, ma anche di un modello di vita e realizzazione spesso in concorrenza con il ruolo di genitore. In questo senso, soprattutto nel caso delle donne, una politica del lavoro che favorisse, per esempio, l’impiego part time, in Italia quasi inesistente, sarebbe d’aiuto”.

L’Italia? Agli immigrati! Di fatto resta la scelta politica tra investire sul futuro o sperare di difendere il presente, magari ipotizzando una società multietnica in cui gli immigrati lavorando ci salveranno dalla bancarotta dello stato sociale. “L’immigrazione – spiega Blangiardo – può essere un fattore di ringiovanimento della società. Ma in termini demografici bisogna considerare che un bambino che nasce oggi garantirà alla società 65 anni di “giovinezza” attiva e poi, supponendo che viva fino a 85 anni, comporterà 20 di assistenza. Un immigrato trentenne significa 35 anni di vita attiva e 20 di assistenza. In definitiva l’immigrazione non offre lo stesso contributo del ricambio naturale, senza considerare che comporta anche delle controindicazioni, soprattutto se si tratta di numeri ingestibili o mal gestiti con il rischio di ridurre anche le possibilità di integrazione delle seconde generazioni degli immigrati”.

“D’altra parte – conclude Gubert – un immigrato non porta con se solo la forza lavoro, ma anche una cultura, un modo di vivere, una religione che modifica in profondità la società, non senza conflitti e tensioni, soprattutto se l’impatto è violento. Con questi numeri perché l’immigrazione possa effettivamente rappresentare una risposta ai problemi dovrebbe avvenire secondo cifre tali da superare ogni soglia di tollerabilità sociale”.

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