Giustizia sfinita

Mentre D’Ambrosio percepisce che vi sia “qualcosa nell’atteggiamento del governo che contrasta con i principi della democrazia”, i manettari scendono in piazza. Il giustizialismo ritma slogan di F. S. Borrelli e balla al ritmo di Nanni Moretti. E in tanto nel mondo si processa Milosovic dimenticandosi che era ed è comunista. Impazziti tutti? Non proprio. Qualche noticina in margine alla storia delle due anime (anche giudiziarie) dell’Occidente di Marco Respinti

La rivoluzione puritana ingabbiata nel dispotismo giudiziario-politico-militare di Oliver Cromwell, che insaguinò le isole britanniche negli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento, sta alla Rivoluzione giudiziario-politico-militare di Francia, dai giacobini al bonapartismo, come la cosiddetta “Rivoluzione gloriosa” che nel 1688 portò sul trono londinese Guglielmo d’Orange sta alla Guerra d’indipendenza delle colonie britanniche dell’America Settentrionale — consuetamente, ma erroneamente definita “rivoluzione americana”—, passando per quel grande momento di vera riconciliazione nazionale che fu la Restaurazione degli Stuart nel 1660, capace di temperare (almeno per un po’) le tendenze assolutistico-stataliste della monarchia inglese dell’epoca precedente il Commonwealth repubblicano. La prima similitudine è di Joseph de Maistre, la seconda di Edmund Burke.

Inghilterra-Francia, uno a zero

C’è un filo rosso, insomma (rosso), che lega i corto circuiti politico-giudiziario-militari — con ampio concorso dei mass-media dell’epoca, ovvero della propaganda pamphlettara che fu capace di sovvertire moralmente e culturalmente, prima ancora che istituzionalmente, intere nazioni — all’alba della Moderntà ideologica, così come esiste un forte legame ideale fra quegli avvenimenti storici dell’evo moderno che, pur con tutti i loro limiti, hanno avuto di mira la salvaguardia della libertà, la continuità istituzionale, la difesa del diritto tradizionale e della sovranità non autoreferenziale.

Il Seicento e il Settecento europei hanno delineato due modi diversi di essere moderni, due atteggiamenti diversi (legalità e legittimità), due concetti diversi di cittadinanza rispetto allo Stato. Uno giacobino, anche oltre i giacobini storici; l’altro a misura di uomo e della sua libertà, sempre e comunque.

Uno che prevede la colpevolezza fino a prova contraria; l’altro l’innocenza. Uno che ritiene i codici giuridici onnipotenti e perfetti; l’altro che, al massimo, li vede come memorandum dello “spirito delle leggi” (lecito è ciò che espressamente non è vietato).

Il diritto contro le manette

Storicamente, da quei lontani Seicento e Settecento si sono sviluppate, in Occidente, due tradizioni culturali e politiche diverse: l’una ha condotto fino allo scempio del socialcomunismo e oggi a quel relativismo debolistico istituzionalizzato che è la falsa democrazia dei tribunali, dei giustizieri opportunamente ogni tanto smascherati, dei tribunali rivoluzionari anche imbellettati. L’altra alla sovranità del diritto che vincola tutti, nessuno escluso, governanti e governati, secondo un’idea vecchia quanto l’uomo per cui l’autorità legittima è solo un primus inter pares e non un despota absolutus, ma pure che la giustizia non è parto dell’arbitrio fantasioso di alcuno (magistrato, pool, Telekabul, Tribunale Internazionale come tank della politica, Micromega, “ItalianiEuropei” o Ecce Bombo che dir si voglia). La letteratura anglofona è ricca di una bibliografia sterminata per approfondire l’argomento, ma guarda caso quella italiana proprio no. Fa lodevole eccezione — oramai a Tempi è un piccolo “classico” — Il secolo delle idee assassine (trad. it. Mondadori, Milano 20021) dello storico britannico Robert Conquest, dove magistralmente viene mostrata e dimostrata la diversa origine e quindi l’opposto sviluppo fra la tradizione di libertà anglo-celtica e la logica positivistico-legalistica della “democrazia” (potenzialmente) totalitaria di marca giacobina. Quella per cui da un lato ci si affanna per inventarsi nuove aule di giustizia nazionali e internazionali che giudicheranno non si sa in base a quale (giacché mai definito) ius proprium, ius commune o ius gentium (e questa è, oltre all’Italia ulivista, l’Unione Europa con i suoi alleati sparsi nel mondo), mentre dall’altro si preferisce rischiare di lasciare libero un criminale in più che non mettere in galera un innocente di troppo (e anche uno solo è sempre troppo). Questo secondo è il mondo che parla la lingua di William Shakespeare, ma bene inteso: non è affatto un problema di mera procedura, ma di chi scrive (magari pure in inglese…) le regole del gioco.

Exit mobile version