Giuseppe Camadini. Quell’intervista (molto politica) a Tempi

È morto Giuseppe Camadini, personaggio di spicco della cultura, dell’economia e dell’educazione cattoliche in Italia. In una rara intervista concessa a Tempi parlò di cattolici, Prodi e della battaglia pro life di Ferrara

Nella mattina di mercoledì 25 luglio è morto nell’ospedale Civile di Brescia Giuseppe Camadini, personaggio di spicco della cultura, dell’economia e dell’educazione cattoliche in Italia. Nato a Brescia il 10 giugno 1931, si laureò in Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore nel 1954 e poi iniziò la carriera come avvocato e come notaio. A 81 anni era ancora presidente della Fondazione Tovini e dell’Istituto Paolo VI e vicepresidente dell’editrice La Scuola, ma è stato fiduciario di numerosi istituti religiosi azionisti della Banca Lombarda, presidente della Cattolica assicurazioni, editore indiretto e l’ispiratore diretto del «Giornale di Brescia». Presidente della Fuci di Brescia e poi vicepresidente dell’Azione cattolica diocesana negli anni Cinquanta e Sessanta, Camadini ha collaborato alla creazione dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero ed è stato consultore dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Uomo dalla grande fiducia nelle istituzioni, si può dire che il suo motto fosse «fede e opere»: fedele all’esempio del beato Giuseppe Tovini, si è infatti speso per tutta la vita al servizio di una crescita sociale e culturale del Paese innervata dalla fede. (articolo apparso sull’Osservatore Romano)

Tempi intervistò Camadini nell’aprile 2008. Vi riproponiamo quell’articolo di Luigi Amicone

Giuseppe Camadini
Il potere, la politica, la cultura e la fede. Parla il Cuccia della finanza bianca, plenipotenziario di curia e uomo cda nel Nord bazoliano. Il disegno velleitario di Prodi, il portato comunista di Veltroni, i cripticismi dei cattolici del Pd, la positiva anomalia berlusconiana, la buona battaglia di Ferrara

Non rilascia interviste. Si è concesso una lunga e amabile conversazione con Tempi. Perché? Ride. «Vede, per me la parola “peccato” ha ancora un senso. Forse sto peccando dandole credito, però una ragione c’è. Mi arrivano diverse pubblicazioni. Di solito non le conservo. Tempi sì. Lei ha davanti a sé una persona che le accorda fiducia».

Brixia fidelis fidei et iustitiae. Glielo ricordò Giovanni Paolo II quando nel 1982 venne a Brescia, e proprio in questo palazzo secentesco che ospita la sua più cara creatura: l’Istituto Paolo VI. Filiazione diretta dell’Opera per l’Educazione cristiana. Qui papa Wojtyla pronunciò un discorso di augurio per un’istituzione che oggi è imprescindibile per la conoscenza e lo studio scientifico del pensiero e del pontificato montiniano. Nato sotto il patronato di un Comitato promotore internazionale (in cui figura un certo Joseph Ratzinger) l’Istituto Paolo VI promuove studi, conferenze e premi internazionali. Possiede nei suoi archivi qualcosa come cinquantamila documenti. Testi originali, lettere, appunti inediti, libri studiati e glossati da Paolo VI, ricerche e tesi sul pensiero e gli scritti di Montini. E quattromilacinquecento opere d’arte (tra cui figurano artisti come Matisse e Chagall) donate al papa bresciano. Senza tralasciare il fatto che storici, cardinali e teologi sono di casa qui. Basti pensare che nella sua prima edizione il premio internazionale dell’Istituto Paolo VI andò al teologo Hans Urs Von Balthasar. Il più recente al filosofo Paul Ricoeur. E tutti, eccetto quello ricevuto dal compositore e musicista francese Olivier Messiaen nella cattedrale di Notre Dame dalle mani del cardinale arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger, sono stati conferiti personalmente dal Santo Padre.

Insomma, siamo a colloquio con Giuseppe Camadini. Presidente dell’Istituto Paolo VI e Notaio per antonomasia in Brescia. Come per antonomasia fu Notaio in quel di Lentini il Giacomo che per primo introdusse la letteratura del sì e i motivi della poesia provenzale alla corte di Federico II. Forse il suo nome dice poco fuori dalla corte della città “fedele a fede e giustizia”. Ma nei mondi delle misteriose corti bancarie e curiali, dire “il Notaio di Brescia” è già una identificazione inequivoca.

Di Giovanni Bazoli cosa ci dice? «Dunque, io sono del 10 giugno 1931, lui credo sia del 18 dicembre 1932. Con Nanni siamo cari amici. Compagni di scuola fin dalle elementari. Lui poi proseguì gli studi liceali all’Arici, retto dai gesuiti, mentre mia madre volle che io frequentassi la scuola più laica, direi laicista, che c’era allora a Brescia, l’Arnaldo. Apro una parentesi. All’Arnaldo noi cattolici eravamo una minoranza esigua. Però ci facevamo sentire. Ci inventammo un giornalino, Il tubo di scarico, davamo battaglia – culturale, si intende – e, quanto a capacità critica e indipendenza di giudizio, non ci sentivamo secondi a nessuno dei nostri compagni di scuola, in maggioranza marxisti, fascisti e liberali. Chiuso. Dicevo di Nanni. Io poi andai alla Cattolica, mentre lui scelse l’università di Padova. Ci ritrovammo in Fuci e da allora non ci siamo più persi di vista. Ripeto, siamo cari amici. Abbiamo fondali molto consentanei per idealità e radicamento nella società bresciana. Ma siccome, grazie a Dio, non ci sono due persone uguali in tutto il mondo, siamo due personalità diverse che hanno avuto percorsi diversi. Lui è assurto ad alte responsabilità, io resto più legato al contesto bresciano. Anche se con qualche esterna correlazione».

Dunque, prima correlazione: due anni fa Camadini ha lasciato la presidenza della Cattolica Assicurazioni. «Mi permetta, società dove ho dovuto affrontare in assemblea il problema della difesa del nome e dell’autonomia. Non per difendere clericalmente questa aggettivazione, ma per difendere il contenuto storicamente irrinunciabile che quell’aggettivo ha e quella tradizione costituisce per l’istituzione». Altre correlazioni? Oltre che del Paolo VI, “il Notaio bresciano” è presidente dell’Opera per l’Educazione Cristiana, della Fondazione Tovini, della Fondazione Camunitas eccetera. Nonché vicepresidente dell’Editrice La Scuola e di Studium; membro del Comitato permanente dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Milano ente che fu promotore dell’Università Cattolica; consigliere altresì dell’Unione Banche Italiane, Banco di Brescia, Banca di Valcamonica, Banca Regionale Europea, del quotidiano Avvenire eccetera. Insomma, se volete saperne di più sulla varietà di posizioni e incarichi istituzionali che ricopre Giuseppe Camadini rivolgetevi a… Bankitalia, ove si ritrovano i “curriculum” di tutti gli amministratori di banca.

Occhi piccoli, azzurro-cerulei. Quello sinistro è leggermente socchiuso. Quello destro, normale, è più che sufficiente a smaltire la routine notarile. Mentre il sinistro si accende, furbo e penetrante, solo per cose “stravaganti”. Ad esempio la semplice ricerca della verità delle cose. È qui che esplode l’impronta che ha lasciato sul discepolo Giovan Battista Montini. Il futuro Paolo VI che a poco più di trent’anni aveva già scritto il suo bel libricino di buoni propositi. «Amare le ragioni della vita più che la vita stessa». E l’occhio socchiuso si accende quando sul lungo tavolo da riunione dove il Notaio ci è dirimpettaio, scende la questione delle questioni, Dio.

Il suo primo infarto risale al 1982. Non se ne cura. È sposato? «No». È un laico consacrato? «No». Dice: «Sono semplicemente un battezzato e cresimato. Un cristiano di diritto comune. Un bracciante». Nel suo modo di conversare un po’ badiale, il Notaio di Brescia ricorda il Professore di Bologna. Un impasto di catechismo fucino, diritto e metafisica. Parla di “tensione unitiva”, “ontologia”, “hegelismo”. Ha memoria da elefante per tutto ciò che di cattolico ha respirato nei secoli in terra bresciana. Ricorda l’anno, il giorno e le circostanze di fine Ottocento che presiedettero alla fondazione della Cattolica Assicurazioni. «Non solo veronesi e trentini, ma anche lombardi ed emiliani. Credo fu il punto dove due anime del cattolicesimo italiano, perdoni l’infelice espressione, lombardo-veneta ed emiliano-romagnola, furono davvero unite. Era l’epoca dell’Opera dei Congressi e della presenza sociale dei cattolici. Dopo tutto Alcide De Gasperi aveva le sue radici quassù». E addirittura – come una volta Francesco Cossiga gli espose («un po’ arditamente») – vi è appunto chi, come il presidente Cossiga, ritiene che «l’ispiratore primo della Dc non fu De Gasperi ma Montini».

Il suo amato Paolo VI diceva che la politica è virtù, “forma di carità sociale”. Oggi sembra arte del tutto screditata. Che ne pensa?

Penso che non si debba essere pessimisti nel valutare la situazione. Siamo evidentemente in una fase di transizione. C’è un paradosso: nel 1948 avevo 17 anni, ho fatto anche l’attacchino dei manifesti della Democrazia cristiana; i giovani allora erano tutti coinvolti in politica e attratti da grandi passioni ideali. Oggi non più. Perché l’Italia è in condizioni peggiori di quella del Dopoguerra? Non credo. Perciò non mi preoccuperei tanto delle difficoltà. Mi preoccuperei piuttosto dei giovani. C’è un tarlo che ha lavorato e lavora nelle loro teste e nei loro cuori. Lo si chiami relativismo, cultura del sospetto, malinteso pluralismo… Si capisce che anche il problema della politica ha alla sua base una domanda a cui non è stata data ancora risposta. E la domanda è: quale educazione, cioè quale accompagnamento alla ricerca della verità ricevono i nostri giovani, tale per cui si possa motivare e rendere normale in loro l’assunzione di impegni e responsabilità? ».

E i cattolici, secondo lei, hanno qualche responsabilità speciale in proposito?

I cattolici dovrebbero innanzitutto sentire la responsabilità di riproporre la propria identità, senza integralismi ma con integrità ideale, dentro una situazione generale contrassegnata da un pensiero debole, e debole dal punto di vista contenutistico prospettico, non per non aver esso inciso, e inciso profondamente, nella società. Solo la riproposizione ai giovani dei fondamentali valori della vita può dare fiducia, speranza e serenità alla società intera per costruire il domani. Secondo: mi pare fondamentale che si avvii una chiarificazione sui concetti di “dialogo” e “pluralismo”. Anche perché il mondo cattolico è stato segnato da un pluralismo che talora non è stato solo la pluralità (sempre auspicabile perché ricchezza nell’identità) ma può essere stato frainteso in una forma di dialogicità approssimativa. Il dialogo vero è quello che si realizza tra due identità che si confrontano, che si valutano, rispettandosi, sempre, in una leale ricerca della verità. Mi pare molto significativo che questa impostazione sembra sia stata condivisa anche da autorevoli voci laiche.

Perdoni, ma a questo punto un cosiddetto “cattolico adulto” potrebbe obbiettarle che l’accento posto sull’identità non è coerente con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Specie su ecumenismo, laicità e apertura al dialogo con il mondo.

(La mano del Notaio corre ad afferrare, quasi fosse una rivoltella appoggiata sul tavolo, un raffinato libretto che sta in bella vista accanto a diverse altre pubblicazioni). Vede, questo è il testamento di Paolo VI, il papa che ha licenziato tutti i documenti del Concilio Vaticano II. A pagina 55 si trovano alcune sue conclusive considerazioni: «Sull’ecumenismo: si proceda l’opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza, con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica. Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo». Più chiaro di così!

Mi pare che sia il momento di Romano Prodi. Come giudica il biennio di governo del Professore?

È facile. Fatte salve le buone intenzioni, tutti hanno constatato la sua relativa efficienza e concludenza. La causa è evidente quanto l’effetto: la presenza nella compagine governativa di forze antinomiche tra loro, incompatibili, inconciliabili. Quello di Prodi poteva anche sembrare un disegno illuministicamente, diciamo così, alto. Si è rivelato così alto da perdere l’appoggio dei piedi per terra.

E sui conflitti del suo governo con la Chiesa, i più aspri che si ricordino dal Dopoguerra, e per di più tra un premier cattolico e una Chiesa italiana guidata da un cardinale, Camillo Ruini, che dell’ormai ex premier fu amico e pigmalione, che dice?

Non mi ha meravigliato. Riflette l’angolatura di un certo cattolicesimo emiliano. Un cattolicesimo, per dirla con un’osservazione di Giuliano Ferrara riferita a Claudio Magris, che ritiene la fede una cosa che ha da alimentarsi e custodirsi prevalentemente nel privato e apparendo irritante ai fini di un dialogo costruttivo con il “mondo laico” il suo manifestarsi nella forma di presenza sociale, organica, pubblica.

E veniamo al duello del 13 aprile. Cosa pensa di Veltroni?

Veltroni è un protagonista proveniente dalla dirigenza comunista. Ha cercato di far credere che stesse guardando all’Africa… Evidentemente non ha mai smesso di studiare l’Italia. Come s’è visto con la sua rapidissima ascesa a leader del Pd. Penso che dopo le elezioni avrà comunque da porre, sia che si ritrovi al governo sia all’opposizione, un problema di rapporti con le ali della sinistra marxista. La quale pur ponendosi all’esterno del nuovo soggetto politico, rappresenta ancora forza di notevole rilevanza, e i “fondali” ideologici riemergono puntualmente sui temi cruciali della vita e della organizzazione sociale. C’è poi tutto l’altro capitolo dei politici Pd prossimi all’area cattolica, dai quali – lo dico da semplice cattolico e con molta apertura dialogica, senza pretesa di giudicare chicchessia – ci aspetteremmo una qualche chiarificazione. Non bastano certo cripticismi nominalistici.

E Berlusconi? 

Nel 1994 era soltanto un imprenditore. Oggi è un imprenditore di notevole caratura politica. Penso che anche coloro che allora furono turbati dalla eterogeneità metodologica della sua discesa in campo, oggi non possono non riconoscere che Berlusconi ha portato un elemento di sollecitazione alla modificazione di uno stato di cose stagnanti che volgeva a una conclusione quasi fatalisticamente tutta a sinistra, inaccettabile di fatto dalla maggioranza del popolo italiano. Egli intervenne drasticamente, sia pure con qualche metodologica improprietà, dentro un quadro politico che avrebbe potuto generare in Italia una involuzione, anche economica, negativa. Non voglio dire che al riguardo per i cattolici e i democratici non sussistano problemi. Anzi. Ritengo che anche il fenomeno Berlusconi sia uno degli elementi di questa fase di transizione a cui accennavo all’inizio che dovrebbe impegnare verso positivi sbocchi. D’altra parte io sono fra quelli che hanno sofferto per la fine del partito democratico cristiano, essendosi generata un’autentica diaspora nel sistema politico, e anche fra i cattolici. Tali eventi furono preparati, a mio avviso, da una eccessiva spinta verso sinistra della Dc e dal suo conseguente distacco dalle origini degasperiane.

Brescia è anche al cuore della cosiddetta “finanza cattolica”. E Alberto Statera ha descritto la sua città su Repubblica come «un budino che misteriosamente tiene insieme cultura solidaristica e cultura liberale, laicismo zanardelliano e cattolicesimo giansenista, clericalismo e massoneria, alta banca e pentolame delle Valli, aristocrazia della terra e finanza svelta, perbenismo e cocaina a go-go». Ritrova qualcosa della sua Brescia in questa brachilogica sequenza?

Cosa vuole, sono cose che oggi, valutando superficialmente la storia, si potrebbero dire, variando un poco le componenti, di qualunque città. Quanto alla cosiddetta “finanza cattolica”, sono sempre stato molto restio dall’accettare questa espressione, proprio per la laicità di visone dei rapporti sociali alla quale mi ispiro. Per altro mi sembra che spesso essa miri a indicare un bersaglio. In effetti si deve parlare di persone impegnate laicamente nella società e nel mondo delle professioni, e così in quello economico e finanziario, ciascuno secondo la propria competenza, responsabilità e identità.

Mino Martinazzoli, ultimo segretario della Dc, ex ministro ed ex sindaco di Brescia, ha detto al Sole 24 Ore che «la presenza, se si vuole ingombrante, di Bazoli è solo il segno di un nuovo capitalismo finanziario, quello delle grandi banche, e non ha più nulla a che fare con le tradizionali radici cattoliche». 

Martinazzoli è un altro mio compagno di scuola, ma all’Arnaldo, con cui intrattengo assai cordiali rapporti personali: un’intelligenza acuta non sempre obiettiva nella valutazione della realtà. Quelle accennate sono opinioni sue molto personali. Non le condivido. E non credo sia interessante spiegarne adesso, qui, le ragioni peraltro facilmente intuibili, attesa l’ottica che prima ho cercato di esprimere.

Il 13 aprile a Brescia si voterà anche per eleggere il nuovo sindaco. E a confrontarsi sono due cattolici, il veltroniano Emilio Del Bono e il berlusconiano Adriano Paroli. Ci interessebbe sapere la sua opinione personale in proposito. 

Se lei mi chiede per chi voterò in questa competizione amministrativa, non posso rispondere perché non sono un elettore di Brescia. Il mio comune di residenza è Sellero, piccolo paese montano in Valle Camonica, dove ho da sempre la mia residenza e a cui sono particolarmente affezionato. Ma a parte ciò, guardo con attenzione a tutti i protagonisti sulla scena. Non ne faccio una questione di partito, ma di persone impegnate o meno sul terreno dei valori.

A proposito di valori. L’ex leader del Movimento studentesco Mario Capanna si sente conculcato nei suoi valori a causa dell’espulsione che subì dall’Università Cattolica nel ’68. Dice che adesso la Cattolica dovrebbe chiedergli scusa. 

Guardi, le dico solo una cosa: a Brescia c’è una presenza dell’Università Cattolica, che ha stabilito qui alcune facoltà a partire dal 1964. Anche perché notaio collaborai a redigere lo statuto di un ente, l’Ebis (Ente bresciano Istruzione superiore), destinato a supportare anche economicamente la sede bresciana dell’università. Dovendo incontrare l’allora rettore Franceschini per mostrargli la bozza dello statuto, mi recai a Milano nella sede di largo Gemelli, dove con mia grande sorpresa mi trovai ad attraversare il chiostro antistante il rettorato nel mezzo di una rumorosa e aspra contestazione. C’erano bandiere rosse ovunque. Penso che sia stata una delle esperienze più mortificanti della mia vita come discepolo e collaboratore dell’ateneo. Per questo, pur non essendo mai stato (e mai lo sarò) ciellino, sono riconoscente al movimento di don Giussani che vidi “contestare la contestazione”. La loro fu una testimonianza alla libertà e contribuì ad arginare la prepotenza dei vari Capanna. Non saprei proprio immaginare quale sarebbe stato il destino della più importante istituzione culturale dei cattolici italiani se non si fosse efficacemente resistito a quelle violenze. E non si possono scordare le sofferte esperienze dei grandi rettori Franceschini e Lazzati. Perciò, quanto alle scuse, non mi sembra proprio il caso che se ne parli. Piuttosto è il caso di ricordare che la Cattolica è passata attraverso il dramma del ’68; e, nonostante il ’68, è sussistita e sussiste tutt’oggi con forti potenzialità che meritano dedizioni generose da parte di tutti i cattolici italiani. Credo che agli inizi degli anni Sessanta gli studenti iscritti alla Cattolica non fossero più di due-tremila. Oggi sono oltre quarantatremila.

Anche lei è sospettoso nei confronti dei cosiddetti “atei devoti”?

E perché dovrei esserlo? È una vicenda singolare e positiva. E non lo dico perché ne auspichi una strumentalizzazione da parte dei cattolici, che devono invece da ciò rigorosamente astenersi. Ma perché tale fenomeno è importante per il contenuto che ha in sé. Per esempio, questa battaglia per la vita, per quel valore fondamentale che è la vita, creata da Dio, è bellissima. Sì, taluno potrà obiettare che va al di la del “politicamente corretto”. Ma è il segno di una significativa resipiscenza di una parte della intellettualità laicista. Mi pare sia così espressione di una nuova laicità, da parte “laica”. Per cui non bisogna misconoscerne il valore. Ma sempre senza indulgere a radicalismi. E con tensione unitiva. Senza affermare particolarismi e parzialità. Perché la verità è una. Questo è il punto: ove veramente si instaura l’autentica laicità. La verità è una. Sia che la dica il cattolico, sia che la dica il non credente. Per questo parlo di tensione unitiva. Perché, come dice la Bibbia, «omne regnum in se divisum desolabitur». Una volta, ai tempi della Dc, mi permisi, durante un congresso provinciale, di ricordare tale massima alla estrema sinistra interna, che aveva esaltato il principio correntizio, il pluralismo delle correnti, come valore in sé e come presupposto di vitalità politica. E soggiunsi che ogni realtà che si trova divisa al suo interno, prima o poi viene spazzata via. Mi diedero del… moralista. Poi s’è visto come è andata a finire.

Lei è un uomo delle istituzioni e crede ancora molto nelle istituzioni. Perché?

Il valore è la persona. Le istituzioni hanno la funzione di servire la persona. Garantiscono continuità all’azione umana e ci salvano dal personalismo, cioè dall’autoreferenzialità.

Caso Moro. Ricorre il trentesimo dal sequestro e assassinio dello statista per il quale Paolo VI si spese fino al punto di “gridare” alle Br impetrando il suo rilascio. Sappiamo che lei conserva molta buona memoria e, forse, anche documentazione in proposito. È così?

L’Istituto Paolo VI non possiede documenti che riguardino quella vicenda. Non c’è dubbio, che la lettera alle Brigate Rosse con quella richiesta di rilascio “senza condizioni” (un passaggio importantissimo, perché in esso c’è il rispetto della laicità dello Stato e il rispetto dei politici cattolici impegnati laicamente sul terreno civile e la legittimazione morale del loro comportamento) furono l’apice del dolore vissuto da Paolo VI proprio alla fine del suo pontificato e della sua esistenza. Così pure la “biblica preghiera” in San Giovanni in Laterano. Ma mi fermerei qui, perché io distinguo ciò che attiene ai fatti, a quei fatti, terribili, da quello che in seguito si snodò e che spesso attiene più alla storia delle strumentalizzazioni politiche che alla storia effettuale.

Per esempio?

Per esempio c’è un certo moroteismo che non mi trova consenziente. Così come certe distorsioni del pensiero di Paolo VI.

Infine. Lei ebbe la perspicacia di comprendere presto la grandezza di Joseph Ratzinger. Tant’è che già nel 1980, nel primo dei congressi internazionali che organizzò all’Istituto Paolo VI, lei invitò l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede a tenere una importante relazione. Adesso che Ratzinger è Benedetto XVI cosa la colpisce del suo pontificato?

Devo premettere che la scelta dei componenti del Comitato promotore nonché dei relatori ai convegni fu opera collegiale di quanti presero parte alla costituzione e all’avvio dell’Istituto. Quanto alla sua domanda specifica soggiungo: mi colpisce la finezza, la delicatezza e la profondità di dottrina. Poi tutti già si conosceva la forza culturale di Joseph Ratzinger e la sua passione per il tema del rapporto fede-ragione. Non dimentichi inoltre che Ratzinger fu eletto vescovo e fatto cardinale da Paolo VI.

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