Giocare liberi con la Pallalpiede

C'è una squadra in terza categoria che gioca solo in casa ed è composta solo da detenuti. Il presidente Lara Mottarlini racconta l'esperienza educativa e sportiva al Due Palazzi di Padova

«Se perdono, tornare in cella è dura. È tutto un “eh, ma dovevi passarla prima”, “eh ma la difesa”, “eh ma come si fa a sbagliare quel gol lì”. Perché la partita è una partita vera e il tifo è un tifo vero, dunque c’è quel che dice il campo, ma anche tutto il suo contorno di recriminazioni e sfottò». Per fortuna la Pallalpiede vince spesso, e così qualche rimbrotto i suoi calciatori riescono ad evitarlo. Ma è anche bello così, un segno di normalità in un contesto decisamente inusuale.

Nome sublime per autoironia

La Pallalpiede, nome sublime per autoironia, è la squadra di calcio del carcere Due Palazzi di Padova. È l’unica squadra iscritta ad un campionato della Figc composta interamente da detenuti. È stata fondata nel 2014 da Lara Mottarlini e Paolo Mario Piva, che oggi sono rispettivamente presidente e presidente onorario. Mottarlini racconta a tempi.itt l’origine dell’iniziativa: «Conducevo un progetto in carcere e nacque l’idea di organizzare un’amichevole con una formazione di terza categoria. L’evento riuscì così bene che mi fu proposto di mettere in piedi una polisportiva. “Figurati!”, risposi. E poi iniziai».

Fuori classifica

Da allora è stato tutto un susseguirsi di grandi fatiche (burocratiche) e grandi soddisfazioni (educative e sportive). Ogni anno, un passo in avanti: i primi finanziatori, l’iscrizione, le maglie, le scarpe, gli spogliatoi, ora anche una tribuna dove, a turno, i detenuti dei vari piani vengono a fare il tifo per la Pallalpiede.

«Alla prima selezione – ricorda Mottarlini – si presentarono una novantina di aspiranti calciatori e ne tenemmo 35. Avevamo tre portieri. Oggi partecipiamo al campionato di terza categoria, giochiamo solo in casa, nel campo all’interno del Due Palazzi, e siamo “fuori classifica”, nel senso che, anche se arriviamo primi in campionato, non possiamo salire di categoria». La squadra è una squadra vera: due allenamenti alla settimana, va in campo chi se lo merita, la formazione la fa il mister e non si discute. «Ma chi non gioca, aiuta in altro modo. A tracciare le righe del campo, ad esempio».

Nessun pregiudizio

Nella Pallalpiede giocano italiani, rumeni, albanesi e nordafricani. «I detenuti vengono vagliati dagli educatori che operano in carcere per consentire loro l’accesso al progetto e successivamente sono selezionati dal nostro allenatore e dal secondo allenatore, in base alle loro abilità calcistiche reali o potenziali», dice ancora il presidente. «Noi non chiediamo mai per quale reato si trovano dietro le sbarre, non ci interessa». Da questo punto di vista, il luogo comune secondo cui nel calcio “a parlare è il campo” smette di essere una frase fatta. «Con lo sport si può davvero ricominciare e il valore educativo di imparare a fare le cose assieme è davvero impressionante». Rarissimamente chi ha passato la selezione, poi ha abbandonato la squadra o è stato cacciato. «Anzi, la fedeltà, il senso di appartenenza è fortissimo tanto da riuscire ad abbattere le reciproche diffidenze. Chi conosce il mondo del carcere sa che gli africani tendono a stare con gli africani, gli albanesi con gli albanesi, gli italiani con gli italiani e così via. Ecco, la Pallalpiede abbatte questi pregiudizi. Sono una squadra e tutti collaborano per vincere».

Coppa disciplina

Per far parte del team occorre firmare quello che Mottarlini chiama «il foglio del codice etico. Un elenco di regole che ognuno si impegna a osservare: il rispetto per l’allenatore, i compagni, l’arbitro, gli avversari, il materiale che affidiamo loro (dalla divisa all’attrezzatura per gli allenamenti)». La cosa funziona meravigliosamente. È il quarto anno di fila che la società vince la Coppa disciplina, riconoscimento che viene dato alla società e ai calciatori che rispettano con più zelo le regole del torneo, in campo e fuori.

Il campo ha l’ultima parola

E gli avversari? «Prima di ogni partita – dice Mottarlini –, li contatto per spiegare loro le direttive di accesso alla casa di reclusione: dovranno sottoporsi ai controlli, non potranno portare all’interno effetti personali e cellulari e così via. Mi capita anche di sentire le loro lamentele, di ascoltare i loro timori. Capisco e non giudico. Anche perché so che, una volta entrati al Due Palazzi, le cose cambiano. Quando l’arbitro fischia l’inizio, tutto ritorna normale: si gioca a pallone e vinca il migliore. Di solito, poi, a fine partita tutti si rendono disponibili a darci una mano, a trovarci nuova attrezzatura, a far conoscere la nostra esperienza anche ad altri». È il bello del calcio, conclude il presidente: «È sempre il campo ad avere l’ultima parola».

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