Fontana fa bene a criticare l’omologazione, ma ormai è tardi

Nel suo discorso il nuovo presidente della Camera ha evocato le diversità storiche, culturali e territoriali dell'Italia, quelle sì da tutelare, e messo in guardia dal pericolo che già preoccupava Pasolini. Contro cui però c'è poco da fare

Il leghista Lorenzo Fontana durante il suo discorso da neoeletto presidente della Camera (foto Ansa)

Il passaggio forse più interessante e drammatico del discorso del nuovo presidente della Camera Lorenzo Fontana è stato quello in cui ha evocato la diversità storica, culturale e territoriale dell’Italia, e l’ha definita come la fonte della sua grandezza, che le istituzioni devono tutelare senza cedere all’omologazione, caratteristica dei totalitarismi. Avrebbe dovuto fare notizia il fatto che, proprio nell’anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, un presidente della Camera conservatore e da alcune parti accusato di omofobia (compresi tre deputati che hanno violato il regolamento del Parlamento mostrando uno striscione di tale tenore) citasse indirettamente un intellettuale di sinistra, elettore del Partito Comunista e omosessuale, come era l’autore di Ragazzi di vita, Le ceneri di Gramsci, Salò o le 120 giornate di Sodoma, ecc.

L’omologazione secondo Pasolini

L’omologazione (Fontana ha usato le parola due volte) è stato uno dei cavalli di battaglia dell’ultimo Pasolini, che nei suoi articoli e nelle sue ultime poesie esprimeva l’angoscia per l’appiattimento della variegata umanità italiana a opera della società dei consumi e dell’edonismo. Scriveva il 9 dicembre 1973 sul Corriere della Sera: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è completa. (…) Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza».

L’8 luglio 1974 rincarava la dose su Paese Sera: «(…) il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva».

La critica all’omologazione, giusta ma tardiva

Lorenzo Fontana merita l’applauso per avere ripreso questa tradizione di pensiero, che ha chiaro che l’omologazione consumista coincide con una forma subdola di totalitarismo, ma merita anche un’amareggiata canzonatura per un intervento decisamente fuori tempo massimo. Alle sue parole si può ben replicare: «Chiudi la stalla, ché sono scappati i buoi!». Se gli italiani apparivano omologati allo sguardo del poeta-regista già quasi cinquant’anni fa, figuriamoci oggi. Alla virtuale abrogazione dei dialetti si è aggiunta quella dell’italiano, sostituito da una parte da una lingua infarcita di anglicismi puramente denotativi, e dall’altra da gerghi generazionali legati perlopiù alle innovazioni tecnologiche. L’abbigliamento di giovani e adulti è oramai lo stesso dalle Alpi alla Sicilia, la produzione musicale locale ridotta al lumicino (ovunque si cantano e si ballano le stesse cose), l’architettura dei nuovi edifici è dannatamente la stessa ovunque: grattacieli in ferrovetro dalle pareti lisce e riflettenti, chiese che sembrano bunker.

Resiste ancora, a fatica, la varietà gastronomica, assediata da una parte dall’omologazione alimentare di stampo americano dei McDonalds’, di Just Eat, di Deliveroo, ecc., dall’altra dalle imposizioni salutiste e igieniste eurocomunitarie, che pretendono di etichettare i più caratteristici alimenti italiani come poco sani e da evitare. Fontana ha richiamato le istituzioni al dovere costituzionale di realizzare e valorizzare le autonomie locali come strumento per la promozione (si potrebbe dire: per l’estrema difesa di quel che rimane) della diversità italiana, ma è evidente che si tratta di un cerotto applicato a una ferita che di ben altro avrebbe bisogno per guarire (o per non infettarsi ulteriormente). Il mutamento antropologico italiano, la riduzione del pluralismo culturale a monocultura, è una conseguenza dei nuovi modi di produzione turbocapitalisti globalizzati e della tecnologizzazione della vita umana, in primo luogo la tecnologizzazione della comunicazione. Agire a questi livelli comporta molto di più che favorire l’autogoverno locale.

Le accuse di omofobia a Fontana

Ma anziché criticare Fontana sotto questo aspetto, i suoi detrattori si sono lanciati sulle piste della sua presunta omofobia, insinuando che non può esaltare la diversità chi non promuove le richieste di quei diversi che sono gli omosessuali. L’equivoco è gigantesco: la diversità di orientamento sessuale, così come tutte quelle che hanno una base psico-fisico-biologica (la diversità di razza, la diversità di età, la diversità di abilità fisica, ecc) piuttosto che storico-culturale non sono sullo stesso piano delle diversità di quest’ultimo tipo, ma sono da esse ricomprese.

Un friulano è (era) diverso da un siciliano per evidenze storiche, territoriali, culturali, ma un friulano eterosessuale e un friulano omosessuale sono, culturalmente parlando, la stessa cosa; un siciliano giovane e un siciliano anziano sono (erano) culturalmente la stessa cosa. Parlano (parlavano) tutti il rispettivo dialetto. Paradossalmente oggi il segnale più incoraggiante che l’omologazione non è del tutto compiuta viene da quei “nuovi italiani” di pelle scura o ambrata o lunare che parlano i dialetti locali italiani con la massima disinvoltura.

C’è differenza e differenza

Dare più importanza, sia in termini esistenziali che politici, alle differenze psico-biologiche che a quelle storico-culturali è funzionale al progetto di deculturazione dei popoli del grande capitale che si esprime nel modello imprenditoriale delle multinazionali americane (il famigerato Gafam). Oggi quando sui giornali si usa la parola “comunità”, quattro volte su cinque non ci si riferisce a una realtà territoriale o valoriale, ma a realtà psico-biologiche come “i gay”, “i neri”, addirittura “la comunità Lgbtqi”.

Questo uso della parola comunità non soddisfa i criteri che per esempio stabilisce Francesco Botturi: «Non è sufficiente perché vi sia comunità che si stia e si operi insieme, ma è necessario che questo sia fondato, motivato e orientato da qualcosa che dia ragione all’essere insieme e lo qualifichi. Qualcosa che si ponga come terzo fra i soggetti in relazione: terzietà del “munus”, che in parte è realtà preziosa e già posseduta, da preservare, curare e trasmettere, e in parte è ancora e sempre da attuare. Questa idea fondamentale e dinamica della comunità è identificante ed escludente sensi riduttivi, sentimentali e psicologisti, strumentali e funzionalisti di comunità. Al contrario, ogni comunità è identificata qualitativamente dal contenuto del suo “munus” riconosciuto, che la abilita alla sua funzione sociale». (Universale, plurale, comune, Vita e Pensiero 2018, p. 144)

L’importanza delle comunità

Le comunità territoriali e valoriali preservano, curano e trasmettono un bene (“munus”) rappresentato dall’integrità del territorio e dai valori in cui si riconoscono, ma lo stesso non si può dire delle “comunità” psico-biologiche, che in comune non hanno un valore ma una caratteristica psico-fisica. Costoro partecipano eventualmente alle comunità valoriali-territoriali insieme a quanti hanno caratteristiche diverse dalle loro. In una parrocchia cattolica italiana non avrebbe alcun senso che si celebrassero Messe per i bianchi e Messe per i neri, Messe per gli eterosessuali e Messe per gli omosessuali: il “munus” rappresentato dalla fede crea la comunità, al di sopra di molte altre differenze che non fanno una comunità in senso proprio.

Perciò Lorenzo Fontana ha fatto bene a evidenziare le diversità storico-culturali-territoriali, che non sono sullo stesso piano delle altre. Ma sia lui che le istituzioni non potranno fare molto contro un fenomeno, quello dell’omologazione, che è imperniato su macrorealtà oggi più decisive dell’esercizio del potere politico.

Exit mobile version