L’ascensore parte con un ovattato scatto metallico. Ecco, è questo il momento in cui due umani cadono in un profondo imbarazzo: siamo così vicini, e nulla, proprio nulla da dirci.
L’altro inquilino fissa ostinatamente attraverso i vetri della cabina il muro che scorre. Io leggo con passione il cartello che recita: portata massima 320 chilogrammi. Bisognerebbe scrivere qualche frase più interessante sugli ascensori, mi dico.
Ma questo vecchio scatolone è davvero lento. A ogni piano singhiozza come protestasse: devo salire ancora? Al terzo, il coinquilino non regge il silenzio: «Ma ha visto che tempo? Non si sa più cosa mettersi, al mattino…». E io con sollievo e quasi entusiasmo replico che sì, davvero, al mattino è così umido, e poi viene caldo, «un tempo proprio strano».
E finalmente scendo. Sorridendo fra me: noi uomini proprio non ce la facciamo a stare vicini senza dirci una parola. Alla peggio, parliamo del tempo. Che profondo, tenace bisogno dell’altro, abbiamo. Come una legge, scritta sulla pelle.