Un estraneo in ascensore. O del nostro tenace bisogno degli altri

Al terzo piano, il vicino non regge il silenzio: «Ma ha visto che tempo?». E io rispondo con sollievo, quasi entusiasmo

La portineria di un palazzo borghese, di quelli in cui si ignora il cognome del signore della porta di fronte. Due condomini aspettano l’ascensore, che arriva con calma, gravato come è da molti anni di servizio. Naturalmente nessuno dei due ricorda a che piano sta l’altro. Il dito sulla tastiera esita, «quarto, grazie». (È strano, come le persone che incontriamo nella portineria di casa ci risultino spesso come invisibili).

L’ascensore parte con un ovattato scatto metallico. Ecco, è questo il momento in cui due umani cadono in un profondo imbarazzo: siamo così vicini, e nulla, proprio nulla da dirci.

L’altro inquilino fissa ostinatamente attraverso i vetri della cabina il muro che scorre. Io leggo con passione il cartello che recita: portata massima 320 chilogrammi. Bisognerebbe scrivere qualche frase più interessante sugli ascensori, mi dico.

Ma questo vecchio scatolone è davvero lento. A ogni piano singhiozza come protestasse: devo salire ancora? Al terzo, il coinquilino non regge il silenzio: «Ma ha visto che tempo? Non si sa più cosa mettersi, al mattino…». E io con sollievo e quasi entusiasmo replico che sì, davvero, al mattino è così umido, e poi viene caldo, «un tempo proprio strano».

E finalmente scendo. Sorridendo fra me: noi uomini proprio non ce la facciamo a stare vicini senza dirci una parola. Alla peggio, parliamo del tempo. Che profondo, tenace bisogno dell’altro, abbiamo. Come una legge, scritta sulla pelle.

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