Emergenza profughi, è solo l’inizio. E se scoppia la bomba migratoria?

Nessuna “invasione” è in atto. Ma tutti i dati seri dicono che dal sud del mondo s’avanzerà presto una marea umana ben più impetuosa di quella attuale. Intervista al demografo Gian Carlo Blangiardo

Siamo sotto invasione? Dobbiamo sbarrare le frontiere, schierare l’esercito lungo coste e confini, rispedire a casa decine di barconi carichi di clandestini? O invece dobbiamo solo preoccuparci di aprire le porte, accogliere, offrire solidarietà a profughi e migranti? Difficile prendere una posizione quando giornali e tv apparecchiano la discussione in termini così sciatti. C’è uno studioso, però, che ha tentato in questi giorni di cosiddetta “emergenza immigrazione” di superare le balorde semplificazioni giornalistiche per sottoporre all’attenzione di tutti alcune «domande che forse oggi non trovano adeguata risposta, ma che è opportuno non vengano rimosse».

Il professor Gian Carlo Blangiardo, ordinario di Demografia all’Università di Milano Bicocca e responsabile del settore “Monitoraggio dell’immigrazione” della Fondazione Ismu – Iniziative e Studi sulla Multietnicità, nella sua analisi apparsa in prima pagina sul Sole 24 Ore di lunedì 24 agosto parte da alcuni dati di fonti diverse ma di segno uguale: dalle rilevazioni Eurostat ai conti di Frontex fino ai bilanci del Viminale, «gli indizi concordano (…), la pressione migratoria verso l’Unione Europea è continuamente in crescita». E secondo il professore, per Bruxelles e per l’Italia in particolare è tempo di occuparsi seriamente del fronte del Mediterraneo centrale, «perché se è vero che i venti di guerra che spingono le 70 mila richieste d’asilo dei siriani registrate nel complesso dell’Unione Europea nei primi sei mesi del 2015 – così come le 38 mila degli afghani o le 21 mila degli iracheni – prima o poi smetteranno di soffiare (ci si augura), non sarà la stessa cosa per il profondo Sud del Mondo». Un “bacino demografico” per cui si prospetta negli anni a venire una piena impetuosa, e che rischia di non trovare altro sfogo oltre all’Europa. Nell’Africa subsahariana, ricorda Blangiardo riprendendo le recentissime proiezioni delle Nazioni Unite, «oggi vivono 962 milioni di persone, destinate a diventare 1,2 miliardi tra dieci anni e 1,6 tra altri dieci». Di qui gli interrogativi che secondo il demografo siamo obbligati a non eludere: tutte quelle persone, di cui gran parte saranno giovani adulti in età produttiva, «troveranno sufficienti occasioni di lavoro in loco o accarezzeranno l’idea della fuga altrove?». Ma soprattutto: «Fino a che punto l’Europa del 2035, quand’anche un po’ meno affollata (10 milioni di abitanti persi in vent’anni) e decisamente meno giovane (37 milioni di 20-39enni in meno), potrà essere in grado di assorbire senza rischi di rigetto una forza d’urto come quella che andrebbe prospettandosi?».

Professor Blangiardo, quindi ha ragione chi parla di invasione?
In questo momento non possiamo parlare di invasione. Come ho scritto, qualche centinaio di migliaia di persone non invadono un continente con mezzo miliardo di abitanti. C’è una forte pressione e tutto lascia pensare che questa pressione possa continuare in futuro, anche con numeri più consistenti degli attuali. Ora, alcune di queste persone scappano da situazioni, si spera, temporanee (guerre, persecuzioni); ma gran parte di loro dalla miseria, dalla disoccupazione, dalla fame, che sono invece legate al sottosviluppo. E siccome questi problemi, i secondi, potrebbero persistere nel tempo e coinvolgere un numero crescente di individui, e penso in particolare all’Africa subsahariana, allora la parte potenziale di giovani che sogneranno di andare all’estero in cerca di futuro sarà crescente. Questo in un mondo nel quale i trasferimenti di persone sono più agevoli di un tempo, più facili, in certi casi assolutamente rischiosi, però comunque possibili. Ecco, l’idea del possibile fa venire in mente a milioni di persone che possono provarci, e questo potrà diventare un grosso problema. Lo scenario che abbiamo sotto gli occhi va in questa direzione, e io dico che non possiamo vivere alla giornata, a meno di non voler immaginare per il futuro azioni assolutamente inaccettabili per impedire la marea che si prospetta.

Nella sua analisi lei auspica «azioni di formazione» intese a valorizzare il capitale umano dell’Africa e a farlo «diventare un fattore di sviluppo nella propria terra». Cosa intende?
L’esperienza degli aiuti economici al dittatore ma anche al presidente eletto di turno ha dimostrato che spesso alla fine tutto si riduce a scambi di natura più commerciale che altro, e non certo nell’interesse delle popolazioni. Invece si potrebbe cercare di impostare seriamente un flusso di “migrazioni circolari”. E cioè: l’immigrato viene nei nostri paesi non disperatamente alla ricerca di un reddito per insediarsi definitivamente e finire per creare sovraffollamento, ma piuttosto per acquisire formazione e possibilmente capitali, rientrare nel paese di provenienza e fare da volano per accrescerne lo sviluppo, impiantare iniziative imprenditoriali, impiegare personale sul posto. L’Africa è ricca di capitale umano, quello che le manca sono i capitali finanziari e i manager capaci di fare impresa. Un uomo disposto ad attraversare il mare su un barcone è certamente uno a cui non manca spirito di iniziativa: proviamo a formare queste persone, ma seriamente, non per specularci sopra.

Sembra un piano a lunghissimo termine.
Le proiezioni che dicono che l’Africa subsahariana da 900 milioni di abitanti arriverà a 1,6 miliardi riguardano i prossimi vent’anni. Abbiamo tempo prima che la situazione esploda, però bisogna cominciare adesso a puntare in quella direzione. Certo, serve la regia di qualcuno che abbia un’attenzione all’interesse generale.

Chi può essere questo grande regista? L’Unione Europea? Il governo italiano?
Sinceramente si fatica a vedere qualcuno con le giuste capacità, però non potete chiedere a me tutte le soluzioni.

L’anno scorso, parlando con Tempi del buon tasso di fecondità francese, lei disse che il merito è anche delle politiche familiari adottate dai governi di Parigi, perché «in Francia prendono sul serio la demografia». Tuttavia, a proposito degli immigrati non sembrano essere stati altrettanto lungimiranti, basti pensare alle banlieue. Perché questa difficoltà? Ed esiste un paese che si può considerare un esempio su questo tema?
Se parliamo della gestione dei flussi migratori, ovvero della presenza straniera sul territorio, ogni paese ha i suoi problemi. La Francia – ripeto – riguardo alla politica demografica in senso stretto è un buon esempio in ambito europeo e sarebbe da imitare, ma dal punto di vista dell’immigrazione lo è decisamente meno. A suo tempo ha portato avanti un modello basato sul concetto di grandeur, illudendosi di poter “francesizzare” tutti coloro che stavano sul sacro suolo della patria. Ma la pretesa di trasformare in francesi anche persone che per tradizione e cultura hanno difficoltà a riconoscersi pienamente tali, ha portato alle banlieue, ai moti di rigetto e a tutta una serie di problemi che non so quanto abbiano risolto. Quanto alla seconda domanda, non vedo un esempio a livello europeo o mondiale. Negli stessi Stati Uniti, spesso indicati come un paese che si è formato attraverso l’immigrazione, oggi non è così semplice entrare. Ed è tutt’altro che agevole immigrare anche in Australia, che è un paese tipicamente “formato da altri”. Il mondo è confuso, eppure ci sono una crescente facilità e un crescente interesse alla mobilità. Una volta si parlava della “bomba demografica”, del pianeta che rischiava di scoppiare: ecco, io credo che la bomba del ventunesimo secolo sia proprio questa mobilità che non si riesce a capire come governare.

A questo proposito: all’epoca, quando fu coniato il termine “bomba demografica”, si descrivevano scenari basati su proiezioni che poi sono state smentite dai fatti. Perché quelle di cui stiamo parlando dovrebbero invece funzionare?
Allora, quando si parlava della “bomba”, si estrapolavano delle tendenze in atto – erano gli anni dei baby boom in Europa – e si immaginava tranquillamente che ciò che stava succedendo potesse continuare a succedere negli anni successivi, senza mettere in conto un fattore che che poi si è rivelato determinante: la capacità dell’informazione e delle tecnologie di risolvere rapidamente il problema. Con le nuove cosiddette “transizioni demografiche” si è immediatamente diffuso il controllo della fertilità, e infatti se allora si facevano quattro figli per donna, oggi si fatica a farne due. Questo modo di fare si è espanso in tutto il mondo: in Asia, in America latina… Giusto l’Africa è un po’ in ritardo, ma anche l’Africa va in quella direzione. Oggi i modelli con cui si costruiscono le previsioni demografiche, come quelle delle Nazioni Unite, tengono già conto di questo tipo di evoluzione delle tendenze. Ecco perché lo scenario che emerge è preoccupante: perché è ragionevole.

Lei ricorda spesso che la spinta alla crescita economica è strettamente legata alla crescita demografica. È assurdo immaginare che proprio in virtù della loro ricchezza demografica siano proprio i paesi africani nei prossimi anni a fare da traino all’economia, e magari a diventare terra di emigrazione per noi?
È uno scenario possibile. Ma come insegnano gli economisti, i fattori di produzione sono la natura, il capitale e il lavoro. Nell’Africa subsahariana certamente la forza lavoro non manca. E non mancano neanche le materie prime. La scommessa riguarda fino a che punto si riuscirà a concentrare lì capitali finanziari per attivare gli altri due fattori, perché invece finora abbiamo assistito di fatto solo a forme di sfruttamento: una volta c’erano i colonialisti, adesso c’è il neo-colonialismo economico, per esempio cinese. Ora, agli occhi dei demografi appare in maniera chiara, ed è stato anche teorizzato, che l’Africa nei prossimi vent’anni potrebbe attraversare quello che viene chiamato un “dividendo demografico”. Avrà tanti giovani, cioè tanti potenziali produttori, e poche persone in carico, perché la natalità diminuisce e la porzione di popolazione anziana sarà ancora contenuta. Si tratta appunto di un dividendo, qualcosa che quei paesi potrebbero incassare se riuscissero a dare valore economico a questa grande potenzialità. Quindi è vero, l’Africa potrebbe essere la Cina del futuro, però da sola non so se riuscirà a farcela. Io ero presente sia in Messico che al Cairo quando fu steso il famoso “Piano d’azione mondiale sulla popolazione”: forse bisognerebbe immaginare qualcosa di simile per contribuire a valorizzare quelle realtà mondiali che ci sono, che vivono in condizioni di grave povertà e difficoltà, e che invece se opportunamente indirizzate potrebbero decollare.

Foto Ansa

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