Due articoli che valgono il prezzo del giornale

La cronaca di Monica Ricci Sargentini per il Corriere della Sera e il commento di Filippo Facci letti su Libero

Ci sono momenti in cui la lettura dei giornali ritorna preghiera del mattino. Riconciliazione con la professione più liberale e diversamente faticosa del mondo. Capita quando succede di imbattersi in articoli di cronaca come quello scritto da Monica Ricci Sargentini per il Corriere della Sera. O in commenti di costume come quello di Filippo Facci letti su Libero.

La maestà del pezzo della Sargentini, da imparare e trasferire nei corsi di aggiornamento per giornalisti istruiti da Mario Monti per portare fieno alle rendite di posizione, ma anche di imposizione (esperti de che, Madama la signora? Ve lo immaginate un Giuliano Ferrara scolaretto a lezione del signorino o signorina Pinco Palla?), sta nel gusto e piacere di immergersi in una narrazione da manuale della professione. Nell’atto che diviene potenza di racconto semplice ed essenziale (una rarità nel gran circuito dell’intrattenimento fatto di pirotecnia e cotillons che chiamano “media system”) di quei famosi “chi, cosa, come, quando, dove e perché” che danno succo e polpa a una faccenda che vale la pena raccontare in pubblico e che per l’appunto, rendono una certa faccenda “notizia” .

Pregevole è il pezzo della Sargentini fin dalla titolazione. Che non sarà merito dell’autrice, ma che l’autrice ha certamente ispirato con un articolo che avrebbe inchiodato alla realtà chiunque dovesse titolare, anche il più integerrimo commissario alla “correttezza politica”. E infatti, chi avrebbe mai detto (e speriamo che se ne ricordi più spesso il boss di Via Solferino) che il Corriere della Sera avrebbe sfondato il politicamente corretto e ammesso che, al diavolo la lingua finta e biforcuta del GPA (gestazione per altri) o del MS (maternità surrogata), stiamo proprio parlando di “utero in affitto”? Monica contatta la clinica californiana, parte, va a vedere e ci spiattella lì per lì soltanto il freddo resoconto di quello che ha visto e ascoltato nel supermercato dei bambini in catalogo. Dove la gestante in conto terzi non ha altro diritto che passare all’incasso. E l’essere “donna” altro non è che un mezzo, un contenitore, uno strumento. Senza nome e senza dignità.

L’altra cosa, scelta in un catalogo di anonimi ovuli e semi crioconservati, è quella che cresce in grembo al mezzo-contenitore-strumento. Un bambino? Sì, un bambino. Da eventualmente abortire e scaricare serenamente nel cesso in caso l’acquirente non lo trovasse di suo gusto sognante e desiderante gradimento. Un bambino in vendita come una scatoletta di sardine. Si capisce tutto senza che sia necessario alcun aggettivo. È commercio di esseri umani e nel prezzo è compreso tutto. Anche il cloroformio che anestetizza coscienza e cervello.

È proprio così, lo vedi squadernato sotto i tuoi occhi, ed è esattamente come adesso ammettono anche le femministe: donna oggetto, bambino programmaticamente reso orfano dalla nascita (ma anche ucciso in pancia se l’occhio non è azzurro come da contratto), scisso dalla storia che lo ha portati alla luce e ridotto a cosa da vendere, linea di prodotto, merce. «Pratica incivile» direbbe, non Mario Adinolfi ma Eugenio Scalfari (e peccato poi che Repubblica lo ignori). «Pratica abominevole» direbbe, non Costanza Miriano ma Livia Turco (e peccato poi che Renzi faccia finta di niente). E con questa mirabile lezione di giornalismo la legge sulle “Unioni Civili” con adozione inclusa, gay o non gay, dovrebbe essere abrasa dai libri mastri del Parlamento e bandita per sempre.

Dopodiché irrompe Filippo Facci, su un’altra testata e su un altro tema e registro, per dire la sua in quell’esercizio giornalistico che è il commento, l’opinione, il ragionamento, che usiamo rubricare in “società” o “costume”. E qui il bello è che, se ci vuole fegato per attaccar briga con tipacci come Scanzi del Fatto Quotidiano, Cruciani della Zanzara e, più sullo sfondo, D’Agostino di Dagospia, ebbene Facci ce l’ha questo fegato. E ci dà dentro, menando la penna sullo stesso terreno dell’egotismo farfallone che fa schiuma e spettacolo. E chi li toccherebe mai certi adulati mostri del cinismo, tanto esperti nell’arte di ammaestrare le folle nell’arte della stroncatura con una risata cattiva?

Facci ha trovato il tallone d’Achille nella cassa di risonanza, a suo modo allegramente mortuaria, di Dagospia. Nella qual cassa, Cruciani e il suo doppio, Scanzi, gareggiano per la primazia. Tra i due c’è il feeling dei galli nel pollaio. Soprattutto, c’è il filo, tra Cruciani, Scanzi e il simpatico spione che col porno e il frizzo ha messo a reddito i commerci e la vanità altrui (siti porcelloni e giornalisti fan tutti a gara ad apparire su Dago), che li lega in un triangolo di eros e thanatos.

Così, nell’occasione in cui Scanzi si inventa sul Fatto la ridanciana stroncatura di Cruciani mettendo di mezzo Dagospia (dando in buona sostanza, come sa fare Scanzi con la sua prosa sarcastica e spumeggiante, di teatrante delle vanità a Cruciani e di lenone a Dagospia), Facci confeziona un mirabile e mirabolante apologo che inchioda lo stroncatore alla sua stessa stroncatura. Non solo spelliccia il volpino che voleva farsi lupo. Ma insegna che anche nel convento degli adolescenti narcisi non basta essere cinici, vagabondi e avere la lingua svelta e forcuta. Non basta. Anche se non si vive in nessuna età, non si è né giovani né vecchi ma si sogna di tutte le età stando seduti in poltrona, occorre però saper sognare almeno un po’ di Shakeaspeare. Non basta parlare, bisogna parlare seriamente. Anche quando si stronca e si irride qualcuno.

E con questa spessa intuizione, non certo esibita ma certamente praticata, il furbo cinismo vagabondo che va di lusso ogni giorno (ed è l’altra faccia dell’aria cattiva che si respira), finisce inchiappettato da uno splendido polemista, anche lui narcisista, ma non senza buon senno. Non a caso Filippo Facci ha il merito storico (e il bel tempo galantuomo dalla sua parte) di non essere stato parte di quel giornalismo codino e opportunista. Che prima fece il lustrascarpe del dipietrismo antiberluscone. Adesso lecca il didietro al grillismo piacione. Beh, ci vogliono testa e attributi. E Filippo ce li ha. Chapeua al macedone delle penne montate.

@LuigiAmicone

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