Dr House, stasera ultima puntata. È vietato ogni piagnisteo

Cala il sipario su un vero e proprio caso televisivo: un dottore cinico e misantropo. Con sottofondo filosofico

Ci sono le note swing di Enjoy Yourself a fare da sottofondo all’ultima scena del medical drama più amato degli ultimi anni: House e Wilson, e il collega e amico di sempre, si sorridono mentre se ne vanno via in motocicletta. Nessuna nona stagione all’orizzonte. Questa sera va in onda su Canale 5 l’ultimo episodio di un vero e proprio fenomeno televisivo, trasmesso in 66 paesi con audience da record (in Italia è secondo solo ad E.R).

Tutto nasce da un’intuizione di David Shore, regista canadese specializzato in legal polizieschi, che leggendo una rubrica sul New Yorker Magazine dedicata ai casi clinici propone alla Fox un poliziesco insolito, in cui il detective è il medico (storpio, accompagnato perennemente da un bastone, dipendente da antidolorifici) e i cattivi sono le malattie. Nasce così il Dr House, che diventa rapidamente un successo planetario.

Al centro della storia le vicende di un’equipe diagnostica guidata da Grerogy House, che combina metodi poco ortodossi a straordinarie doti intuitive. Tra i numerosissimi riconoscimenti (cinque le vittorie agli Emmy Award come Best Drama, Golden Globe per la recitazione del protagonista Hugh Laurie, uno degli attori più pagati della storia delle serie Tv) spicca il premio Humanitas, storicamente assegnato a storie in grado di affermare «il valore della persona umana, il senso della vita, l’uso della libertà». Stupisce, perché House è tutto tranne che umano: non si fida di nessuno («Everybody Lies» è il suo motto) odia il contatto pietoso col paziente, ma anche il contatto in generale, perché «lei cosa preferisce, un medico che le stringe la mano mentre muore o uno che la ignora mentre migliora?»
È  un anti-eroe che infrange le regole a suo piacimento, anti-conformista, inquieto, sofferente. Uno dei tanti fili rossi della serie è il rapporto contrastato del primario con la spiritualità (che l’assistente Chase, biondo ed ex chirichetto, nei casi di emergenza lascia rigorosamente fuori dalla sala operatoria). House non crede, anzi non fa che cercare argomenti (la morte, su tutti) in grado di decretare la vittoria della scienza su Dio. Ed è in questa battaglia all’ultimo sangue che Carlo Bellieni (autore assieme ad Andrea Bechi del volume Dr House MD: follia e fascino di un cult movie, edito da Cantagalli) ritiene ci sia la chiave del successo della serie, in questo proporre in modo non scontato un itinerario “eticamente buono”.

Usando parole, immagini, e debolezze umane che apparentemente contraddittorie con questo tipo di ricerca. Nascosta dietro strati di cinismo, dunque, ci sarebbe una morale che passa al telespettatore proprio perché non fa la morale: «Analizzando l’evolversi delle espressioni politically scorrect di House che si può arrivare a cogliere il messaggio della fiction, che altro non rappresenta se non il cambiamento e lo stupore di una mente cinica».

Calpesta l’amore, va a prostitute, è drogato e ed egoista. Mette baldanzosamente in ridicolo la religione. Però, pur con tutto il suo cinismo e la sua misantropia, House non si arrende mai a una diagnosi mortifera. Come quando cerca una cura per il famosissimo jazzista che vuole morire, disobbedendo così al suo testamento biologico, e in una società ossessionata dalla salute non fa che ripetere, imprecando, che la vita ha sempre delle qualità (anche se non si può più suonare jazz).
Bellieni, come tanti altri, rifugge la sovra-lettura religiosa, semplicemente registrando come House sia un personaggio cattivo. Come tutti noi. «La gente a volte crede che il cristianesimo sia una questione di buoni sentimenti, di buona educazione» scrive Bellieni. «Invece “santo” è uno che ricerca il bene, anche se magari non ci riesce. La dinamica del cristianesimo è sempre quella tra il desiderio e la domanda. E House non sa a chi fare la domanda, ma certamente è intriso fino al midollo di desiderio».

Di certo c’è che la sceneggiatura americana gioca abilmente la carta dell’ambiguo, e sa come circondare la figura di Gregory House di mistero. Secondo Giorgio Simonelli, storico della televisione e docente di Giornalismo televisivo all’Università cattolica del sacro cuore di Milano, il prodotto ha funzionato in quanto ha intercettato il gusto di un pubblico che ambisce a vedere disattese le sue aspettative rispetto al genere del medical drama all’italiana: «Il legame tra i mezzi di comunicazione di massa e il tema medico funziona da sempre. Rispetto ad altre produzioni di questo tipo, la serie Dr House si mostra originale nel tratteggiare un personaggio fortemente connotato a livello caratteriale, ed al tempo stesso la sua negazione. Ciò che House incarna è il recupero di un sapere filosofico-maieutico che si fonda su un’abilità intuitiva che va ben oltre “l’occhio clinico” che ogni medico dovrebbe possedere: House richiama categorie che sono al limite del paranormale, combinandole con un ostentato materialismo e pragmatismo».
E la chiave del successo sta tutta in questa ambiguità, per cui House è il migliore dei medici, senza esserlo: è religioso senza esserlo, è ateo senza esserlo. «Nulla è preciso, ma si muove costantemente in una zona grigia. Che oggi al pubblico piace molto». L’idea che le storie di House contengano un messaggio esistenziale lo ha chiarito una volta per tutte lo stesso David Shore, parlando del «sottofondo filosofico come opportunità di parlare della vita, e di come viverla». Ora sulle vicende di Gregory House si chiude il sipario. In linea con lo spirito della serie, è severamente vietato ogni piagnisteo. E se a qualcuno dovesse venire un po’di nostalgia, tranquilli: non è mai il lupus.

@SirianniChiara

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