Dice di «amare la vita». E noi, amzichè chiedergli perchè, gli diamo la siringa

Sarà frutto di una coincidenza che l’appello al presidente Giorgio Napolitano di Piergiorgio Welby, malato di distrofia, perché potesse finalmente avere una “morte dignitosa” sia giunto negli stessi giorni in cui l’associazione Exit ha presentato il video di Micheline, malata terminale che s’è tolta la vita in Svizzera. Sarà una (mortale) coincidenza, ben sapendo tutti quanto Exit e l’associazione Luca Coscioni, di cui Welby è copresidente, siano da sempre ben poco attenti al risvolto mediatico delle loro iniziative. D’altronde è tutto girato per essere il canovaccio del prossimo Mare dentro: una persona normale che ha perso la gioia di vivere, la scienza che alza il vessillo bianco, una soluzione dignitosa. Anche la moglie è d’accordo, sapete? Per una fine asettica, rapida, dolce. Si ricomincia a parlare di eutanasia e naturalmente a chiederla sono gli italiani per bocca dei loro portavoce radicali. E naturalmente i sondaggi lo confermano: siamo milioni, vogliamo tutti crepare in santa pace. Intanto il sasso è gettato e mal che vada porteremo a casa il testamento biologico, adeguato surrogato cui possiamo aspirare in questo retrogrado paese dalle tradizioni catto-vaticane.
Se però per un attimo ci tornasse il senno, inizieremmo ad affrontare il problema per quello che è: non la disquisizione di quando è giusto o meno morire, che è un dibattito adeguato a una comunità di zombie. Ma affronteremmo il problema del valore della vita, non della morte. Questione di assai di più difficile approccio, soprattutto in un mondo che si mette a discutere se è giusto farla finita o meno, mentre i vivi, come è accaduto a Terri Schiavo, li fan perire di fame e sete. C’è ancora qualcuno che abbia idea del perché occorra essere voracemente attaccati alla vita fino all’ultimo? Welby ha scritto di «amare la vita». Ma noi, anziché chiedergli perché, gli porgiamo la siringa.

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