Diario dal fronte

L’ospite

21 marzo, domenica. È una tranquilla giornata primaverile a Belgrado, famigliole coi bambini passeggiano in Terasje, viale del centro che nell’inverno ’96-’97 era riempito ogni giorno dai dimostranti pro-Milosevic. Mi domando che fine abbiano fatto. L’opposizione democratica è ridotta alla presenza coraggiosa ma simbolica della piccola Alleanza Civica di Vesna Pesic, mentre il famoso Cristo dei Balcani, Vuk Draskovic, barba lunga e occhi spiritati, invece che farsi crocifiggere ha scelto il cadreghino di vice-ministro. Vado a trovare Dragan Janjic, il vice direttore dell’agenzia Beta che durante le marce di protesta di due anni fa aveva offerto l’analisi più lucida e pessimistica: “Milosevic farà finta di cedere, ma non lascerà il potere”. Ed ora che previsioni si sente di fare? “La guerra ci sarà. Slobo ha bisogno dei bombardamenti della Nato per dimostrare alla nazione che lui non rinuncerà mai al Kosovo”.

22 marzo, lunedì. Zoran è allegrissimo nonostante che siamo diretti a Pristina, o forse proprio per questo. I taxisti come lui fanno affari d’oro coi giornalisti occidentali che vogliono recarsi nell’esplosiva regione del Kosovo. Tutto fila liscio, gli unici ostacoli sono i numerosi check-point che iniziano a Rudnica dove la guardiola fissa per il controllo dei passaporti e la milizia in divisa blu con la scritta in cirillico lasciano intendere che il Kosovo di fatto è già un altro Stato. La prima cosa che sorprende arrivando a Pristina è la selva di antenne paraboliche sui tetti e sui davanzali di povere case, unico appiglio al mondo esterno di una nazione che rischia l’asfissia. In città tutto sembra tranquillo anche se a Koha Ditore, il quotidiano in lingua albanese, riferiscono di massacri di villaggi compiuti dalla soldataglia serba. All’Hotel Grand, stracolmo di giornalisti, alloggio in una camera sporca e infestata da scarafaggi.

23 marzo, martedì. Nella notte ci sono stati due attentati, alcuni killer sono entrati in bar frequentati da giovani albanesi lanciando delle granate e provocando due morti e una decina di feriti. In attesa delle bombe dal cielo scoppiano quelle a terra, ma non sono meno micidiali. Nel tardo pomeriggio il mediatore americano Holbrooke annuncia il fallimento dei negoziati con Milosevic e il Kosovo ricomincia a sperare per il futuro e a temere per l’immediato. Da quando la Nato ha minacciato i raid aerei il dittatore di Belgrado anziché ritirare l’esercito ha inviato 30mila soldati con artiglieria e mezzi pesanti per stringere in una morsa d’acciaio l’Uck.

24 marzo, mercoledì. La tensione è altissima, in giro per la città si respira un clima di diffidenza e di odio, tutti sono spaventati: i serbi hanno paura dei raid aerei che potrebbero colpire anche la popolazione civile, gli albanesi temono le vendette e le ritorsioni violente dei serbi.

“I miei vicini da stamattina non mi salutano più – dice la mia interprete albanese, Fatha – i raid della Nato sanzionano la nostra inimicizia, non abbiamo più una via d’uscita se non lo scontro totale”. Le chiedo cosa pensa della guerriglia dell’Uck e la risposta vale cento editoriali: “È il prodotto speculare della violenza serba”. Sono le 7 e 25 di sera quando Pristina viene scossa da un boato seguito dal crepitare della contraerea serba. I top-gun della Nato hanno colpito l’aereoporto. È iniziata la prima guerra d’Europa dal 1945.

25 marzo, giovedì. Poco dopo mezzanotte si succedono quattro fortissime esplosioni, il cielo si illumina di rosso e dalla finestra della mia camera al sesto piano osservo un incendio gigantesco che divampa a pochi chilometri di distanza, probabilmente una raffineria colpita dai Cruise. Cerco i colleghi muovendomi a tentoni nel dedalo dei corridoi e delle scale d’emergenza illuminate da una luce fioca. All’improvviso mi trovo davanti degli uomini armati, uno mi punta il kalashnikov al petto e vuole sapere cosa faccio in giro a quest’ora. “Italiano? Aviano!” grida. Vogliono intimidirci. Siamo gli unici occidentali qui dopo che sono partiti in fretta e furia gli osservatori dell’Osce (un errore criminale, a giudicare dalla mattanza tra gli albanesi che ne è seguita) ed anche le organizzazioni umanitarie. Ci rinchiudiamo nel centro stampa al primo piano dormendo su tavoli e sedie. Alla luce del giorno usciamo sul corso Vidovdanska che gli albanesi chiamano viale Madre Teresa: ci sono solo pattuglie dell’esercito, autoblindo e miliziani, accompagnati da civili di etnia serba dall’aria poco rassicurante. Gli albanesi se ne stanno rintanati in casa, chi osa avventurarsi in giro viene insultato o picchiato. In uno dei pochi negozi aperti c’è una lunga fila di persone che fanno provviste in silenzio e quando arriva il turno di due ragazzi albanesi il negoziante li apostrofa in malo modo: “Non c’è nulla per voi, andate a chiedere alla Nato!”.

Torno in hotel, il miliziano all’ingresso urla “Wojna, wojna!” (guerra, guerra) e ridendo fa finta di sparare sui giornalisti della hall. Anzi spara davvero, ma per fortuna solo in aria. “Non possiamo garantirvi l’incolumità” dice un funzionario che poi ci annuncia il decreto d’espulsione. D’ora in avanti non ci sarà più un solo testimone oculare delle atrocità compiute nel Kosovo. Siamo tutti costretti nelle retrovie a Skopje in Macedonia o a Scutari in Albania dove raccogliere i singhiozzi e i racconti di un’umanità disperata in fuga. I bombardamenti continuano ma possono solo peggiorare la situazione se non verranno seguiti dall’invio di truppe a terra. Così la pensano gli albanesi del Kosovo e per chi è stato a Pristina è difficile dar loro torto.

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