Curare la relazione nel reparto Covid

Il racconto di chi è stato curato per un mese all'ospedale San Gerardo di Monza. Tutti cercano gli occhi, tutti cercano un legame

Durante Covid-19, cosa possiamo apprendere delle nostre relazioni umane? Ho pensato di condividere questa breve e allo stesso tempo intensa esperienza personale di Covid-19 in ospedale e registrare qualcosa intorno al tema delle relazioni umane.

Da un mese sono al “San Gerardo di Monza”. Stavo lavorando sul campo per un progetto sperimentale con minori inseriti nel circuito della giustizia minorile per conto di quell’innovatore che è don Antonio Mazzi, il Progetto “Pronti, Via!” di Fondazione Exodus selezionato da “Con i Bambini”. Nonostante si facessero tamponi ogni tempo stabilito, ci siamo trovati nella tappa della Carovana ad Assisi, il 19 ottobre, 9 su 13 positivi. Faccio i salti mortali per autorizzare il rientro a Milano. Tutti i ragazzi a casa con grande fatica, gli educatori tutti positivi me compreso, a casa mia a Monza in quarantena. Nel mentre, stavo lavorando a una ricerca per conto della Cooperativa la Meridiana sul futuro delle Rsa dopo Covid. Questa volta operavo sotto lo sguardo di Mauro Magatti che ha accettato di sporcarsi le mani in questo settore tanto cruciale delle nostre famiglie. Il Covid era una materia di studio. Proprio le “adolescenze esplose” (le chiamo così) del progetto per minori, mi rendevano consapevole della forte accelerazione – in negativo – che il Covid stava imprimendo su di loro. Se tu distanzi socialmente un già escluso dalla società, come fai a non prevedere maggiori danni per lui e per tutto il sistema?

Il giorno dopo questo “esodo” da Assisi a Monza, la mia febbre, già latente a 38°, sale e non saturo bene. Subito vado in ospedale e dal 25 ottobre eccomi qua al “San Gerardo” di Monza. Ho fatto i primi 12 giorni in terapia intensiva. E poi, dal 10 novembre, sono in reparto sub acuti. Provo a descrivere le relazioni esperite durante le diverse fasi. Si tratta di tre livelli molto chiari nella mia esperienza con tre componenti del “sistema ospedale e malattia” molto concreti. Appunti di viaggio per contribuire a capire meglio tutti quanti, sia noi che siamo ancora “dentro” sia chi è “fuori”. Scrivo come appunti di viaggio, con la volontà di contribuire a far capire meglio cosa è l’esperienza del Covid anche a chi si sta curando a casa e agli altri che vogliono partecipare anche se non è toccato loro.

Nel mio caso la terapia intensiva è cominciata stata dopo 15 minuti in Pronto soccorso, con casco, che non mi ha lasciato per tutti i giorni successivi. Poi il casco diventa uno scafandro e, quando vieni pronato, è una grande fatica. Sei più o meno imbrigliato con lacci dietro le spalle e guardi solo il letto. Braccia avanti come per nuotare. Poi la modulazione e il ritmo dipende da come rispondono i tuoi polmoni. Ci sono anche pause in cui “mi sembrava di sognare”.

Le relazioni di quelle ore, soprattutto del prima e del dopo la messa e levata dello scafandro, sono con i medici con cui cerchi di costruire un contatto. Loro sono molto impegnati, e la loro attenzione è richiamata da chi sta peggio di te. Sia loro sia gli infermieri cercano una modalità di relazione inedita anche per loro. Tu sei nella plastica e loro sotto tute integrali, si vedono solo gli occhi. Loro cercano un contatto e tu lo cerchi. Vedi solo occhi e usi quelli. Due vertici. Uno lato paziente è uno lato sanitario. Quando tu non ce la fai e vuoi essere toccato. Quando vuoi stringere una mano vera prima di metterti a pancia in giù e non vedere più nessuno di notte per 6/7 ore. Tu vai in un altro mondo per un po’. Una notte, io che cercavo scuse per tirare tardi, vedo arrivare una infermiera (Annamaria) che mi fa la barba, così, dice, “la plastica dello scafandro ti fa meno male”. Poi costruisce con della spugna e un telo tagliato un mini cuscino da infilare nel casco. E così, tu le dici “grazie” e le stringi la mano.

Pensi a quando queste donne stupende, e qualche uomo, tornano a casa. Giorni nei quali hanno dato soprattutto questo, “energia della relazione”, e poi curato corpi. Penso ogni giorno a quando, alcune volte, tocca loro salutare il malato che andrà in rianimazione e, magari, il giorno dopo non sapere se ce l’ha fatta oppure no. E questo, lo vivono tutti i giorni… con un ritmo quasi ossessivo al di là del compenso, che dovrebbe essere di primo livello e non so se questo avviene, dal momento che nessuno misura questo “prodotto”, la relazione. Non è diverso dal settore socio-sanitario, dai meccanismi di “minutaggio” in vigore nelle Rsa, ad esempio, né dal meccanismo delle strutture accreditate nel settore socio-educativo rispetto al numero di persone seguite (come le conigliere della fattorie… senza mancare di rispetto a queste realtà che devono subire queste regole). Relazioni in ospedale che qualche volta si trasformano. Qualche medico che osa condividere con te le soluzioni, che non viola la comunicazione dei dati dei protocolli, ma in modo indiretto cerca di farti capire. Non solo, ma cerca anche di dirti “ho bisogno di te per aiutarti”.

C’è stata una pneumologa che un pomeriggio, forse il più critico, mi ha detto: «Le va se facciamo una cosa più profonda? Le devo fare un prelievo in arteria ogni mezz’ora e regolare i flussi di ossigeno e la posizione?» (non avevo la valvola perché non riuscivano a metterla). È andata avanti tutto il pomeriggio e, forse, quello mi ha evitato di andare oltre lo scafandro. È stata una sua iniziativa? Una deviazione dal protocollo? Forse, ma questo mi ha salvato. E di questo posso dare testimonianza anche quando ho visto un paio di volte delle infermiere piangere. Non è successo nel reparto intensivo, ma in quello per subacuti, dove inizialmente non c’erano caschi ma poi sono arrivati fino quasi a invadere tutto lo spazio. Come vedere una impotenza che prende il sopravvento.

E poi ci sono le relazioni umane che ti porti in dote prima di entrare qui. Ce ne sono di solide e ce ne sono di congelate, magari anche di fallite. Vedi attivare, allora, fasci di luce un po’ da tutti. Cambiano le composizioni, però. Mi trovo a osare parole con chi non avevo condiviso se non pezzi di lavoro o amicizie antiche. Trovi anche tu parole che non avevi usato prima, per quel pudore brianzolo che ti porti appresso o quella mente che controlla le emozioni per tutelare la tua identità. Che poi ti accorgi diventare morbida, come quando eri bambino. Dalle parole non dette che mediti mentre trascorri le notti, elabori letterine, messaggi, cose dette al momento che ti sembra più adatto per quella persona. In questa esperienza, io dico grazie ai social, ma ho capito che non è il contenuto che conta quanto il tempo che puoi e devi governare.

In questo siamo analogici e lo saremo sempre. Siamo superiori a tutte le intelligenze artificiali che si possono metter in circolazione. Il mistero dell’attimo nel quale avviene una comunicazione tra umani resta un mistero. È come il vento. Mi viene in mente il bel libro dell’antropologo Marco Aime, Il dono al tempo di internet. Ma questo è il contorno, diciamo la forma. Scopri invece il contenuto essenziale della relazione, “sentirsi pensati”, e questo non lo decidi tu. Nemmeno se cerchi di sedurre o lanciare chili delle tue emozioni. Decide un altro da te se vuole alimentare la relazione. Sempre. Tu puoi solo curarla, inteso prenderne cura. È un po’ come il desiderio secondo la visione di Massimo Recalcati: è fuori di te. O il concetto di “depotenza” di Magatti e Giaccardi. Il contrario della spinta individualistica o controllante tipica della nostra condizione esistenziale e sociale. Anche di quella culturale: io compro quello che voglio dall’autore che voglio, che mette sul mercato qualcosa di standard e non di unico.

Ma su questo livello delle relazioni avvengono cose stupende. Vedi arrivare al momento giusto, e anche al momento sbagliato, messaggi scritti dopo la riflessione di qualcuno, dicevo. Che si interrompono dalla routine delle loro giornate nella quali ti dicono e anche tu dici: “Scusa devo fare quella commissione o quella call”. Questa dimensione la ritrovo nelle mie esperienze africane dove un altro amico (padre Kizito) mi ha insegnato a guardare «l’Africa come cultura delle vita
abbondante». Dove, se passi da una famiglia e gli dici “guarda non posso adesso, ma appena posso vengo” e stai sulla porta, meglio non andare. Oppure se vai alle 3 di pomeriggio in una famiglia di campagna e loro ti dicono “ti cuciniamo un pollo” non devi dire “ho già mangiato”. E la sera ne hai mangiati magari 3. Un po’ scherzo, ma nemmeno tanto. «Non siamo la tribù più evoluta del pianeta come riteniamo noi» mi dice Kizito nei momenti cruciali. Proprio no.

C’è una parte preziosa che non scrivo qua (le parole forti, le poesie o le musiche ricevute), ma è stato importante come l’ossigeno che ancora ho addosso. È quello che passa nella relazione, il contenuto, che se riesce si trasforma in legame. E lì diventa impegnativo, non solo piacevole. Metto le mani un po’ avanti. Spero che questo stile delle relazioni da alimentare mi resti per il resto della vita. Ognuno di noi può fare molto, come dice papa Francesco, o può anche non fare molto, come dice ultimamente.

C’è un’ultima dimensione delle relazioni. Sono quelle che nascono con i tuoi vicini di letto. Dipende dal reparto, ma in intensiva sei bloccato al letto. Unica persona che vedi senza schermi è il tuo vicino o la tua vicina. Allora cominci ad ascoltare la sua voce e ti fai una prima idea. Senti subito il disorientamento o la paura delle prime ore che hai vissuto anche tu. Poi, quando sei senza casco, lo vedi senza maschera. Ed è come essere lì entrambi a guardare giù dal bordo di un burrone. Come i bambini quando giocano. Oppure parti da lontano per conoscerlo, vai a tentoni. A nessuno quasi subito viene da chiedere alla milanese: “Che lavoro fai?”. Anche la famiglia resta un tema delicato. Come se non fossimo solo la stretta famiglia che coincide con chi vive in casa con te come proprietà chiusa.

Viene fuori qual è il tuo tono, ancora quali relazioni hai vive. Come esisti e a quale comunità appartieni. Ma, tornando al tuo amico, vedi in lui tutti i limiti che hai anche tu. Sei al confine e qualcuno usa la parola: ce la farò? Un signore di 80 anni che andavo a salutare senza farmi vedere dagli infermieri, al secondo reparto, quando potevo andare nel bagno in corridoio, mi ha detto: «Spiaseria muree’ propri chi’, Cristu» (mi spiacerebbe morire proprio qui, Cristo). Ma lo diceva in modo sereno. Strana serenità nel confine, ma questo lo devo ancora capire per bene.

Quando poi senti che il medico che si avvicina e dice al tuo amico o quello due letti dopo che «i valori dello scambio di ossigeno non vanno bene, dobbiamo andare in altro reparto» e sai che è quello dove tu non vuoi andare… e allora saluti. Così come saluti quando entrambi ci si mette il casco, come su un giro in moto.
I medici hanno ancora una volta la delicatezza di parlare cercando di proteggere. Il dato dell’emogas (la concentrazione di ossigeno nel sangue prelevato in arteria ) è il grande tabù e forse va bene così. Certe volte la situazione ricorda quella di un lager, dove sai che tu non sei diverso dagli altri. E un po’ ti prepari. Poi ci sono piccole alleanze importanti quanto le cure.

Di tutto questo resta il dentro e il fuori di Covid (intendo dentro e fuori ospedale, ma anche chi lo vive da casa malato), ma di questo scriverò un’altra volta. C’è uno scarto tra quello che si vive in trincea e la realtà raccontata, anche da giornalisti bravi, ma di coerente tra il dentro e il fuori dell’ ospedale c’è poco. Sarà così anche per gli altri campi del vivere? mi sono chiesto. Mi impegnerò a mettermi in altre situazioni.

Soprattutto si vedono vertici della narrazione che non sono reali: la pandemia è un’emergenza globale, non locale. Perché spendere tempo a colorare le zone delle regioni? Perché strumentalizzare a fini di consenso posizioni estreme? Perché non investire tutto, non dico tanto, ma tutto sulla formazione e sul benessere anche economico del personale sanitario ed anche del sociosanitario, soprattutto per le Rsa? Perché non investire tutto su pezzi del sistema sociale molto compromesso? «È un terremoto di cui non si vedono le macerie – diceva Magatti già nel mese di aprile -, ma sono tutte sociali, poi anche economiche e sanitarie». E in questo investire grandi risorse, ora, per il mondo della educazione e della scuola. Non vedo questo.

Non so il tono che è uscito da questo scritto. È più però verso il fuori che per il dentro. Avremo ancora un pezzo lungo di strada, tutti quanti. Sia io che voi che mi avete letto o sopportato.

Mino Spreafico
Ospedale San Gerardo di Monza
18 novembre 2020

Foto Ansa

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