I miei compagni uccisi ogni giorno dall’ergastolo

Non si può vivere chiusi per sempre in un “marcitoio” dove la morte ha ragioni più forti di ogni speranza. Aboliamo questa ipocrita, interminabile esecuzione

Caro direttore, ti ringrazio per Tempi, che puntuale arriva dentro la mia cella, che leggo sempre con grande interesse e che tanti altri detenuti del mio reparto leggono con lo stesso interesse. Nel mio reparto G8, siamo 290 detenuti, tra cui 48 ergastolani. Proprio questi mi hanno chiesto di scrivere una riflessione sulla pena dell’ergastolo e chiederti di aprire un dibattito; l’ho scritta ben volentieri e te la allego. Credo che sia proprio giunto il tempo per aprire un dibattito politico-culturale serio per cancellare dal nostro Codice penale questa ignobile pena senza speranza. 
Con stima e gratitudine,
Totò Cuffaro, detenuto nel carcere di Rebibbia

Ogni detenuto continua a sperare che ci sarà un giudice a Berlino. Ma c’è Berlino? Se lo chiede ogni giorno il detenuto del “fine pena mai”, che ormai da anni guarda passare altri detenuti, e ancora purtroppo ne vedrà, ed è anche lui seduto con me sul sedile di cemento del cortile.

Anche lui, per cui il desiderio sempre – così prevede lo Stato – dovrà rimanere tale, desidera come me la libertà; per lui però, purtroppo, il desiderio è solo ricordo e deserto e non futuro e mare. Solo di un’onda può godere, quella che rifluisce dai ricordi, sol di questa si bagna, si imbeve e si dilata il suo desiderare. Sono fiducioso, anche se solo un po’, per il mio amico detenuto “fine pena mai”, un giorno anche lui potrà desiderare il futuro e il mare.

È impossibile vivere in carcere senza la speranza di poter tornare liberi, eppure si vive, anche se non tutti lo fanno per sempre. Al devastante effetto causato sulla testa dalla pena dell’ergastolo, si aggiunge la condizione inumana del luogo e la consapevolezza insana e spietata di dover vivere per sempre sospesi e cancellati dal mondo. Vivere in un posto lugubre, in un “marcitoio” dove i detenuti “fine pena mai” si aggrappano all’esistenza con una voglia di vivere, quelli che scelgono di farlo, che ha dell’immaginifico, del miracoloso.

La vita per loro scorre calma, ordinata, apatica, tra porte blindate e cancelli che si aprono e si chiudono con un rumore ormai familiare. Questi che sono i tanti, sono quelli che non crollano e che superano e vincono la tortura di una attesa senza fine; anche loro però non rinunciano alle urla, alle imprecazioni, alla disperazione, e non rinunciano alla preghiera e con essa a poter credere in una speranza senza speranza, e a chiedere patetiche e inutili domande di grazia. Altri che sono pochi, ma non pochissimi, cercano, incontrano e si aggrappano alla morte, la scelgono una sola volta per non morire ogni giorno sino alla morte, per non morire più volte e sempre.

È fatica tenere in vita la vita quando è reclusa in una cella, per i “fine pena mai” è una fatica inumana. Tanti nelle carceri pensano alla morte, i “fine pena mai” più degli altri, hanno più motivi e più tempo per farlo; specialmente la notte, quando il carcere assassino colpisce l’anima, la notte quando i motivi per morire sono più forti delle ragioni per vivere, perché la notte, in carcere, la morte non è come fuori, è liberatoria.

Ho visto in questi miei anni di carcere, dopo aver vissuto e sofferto con loro, i loro cadaveri portati via; uomini che il giorno prima vivevano, morti per loro scelta: impiccati nelle celle, con le vene tagliate, per inalazione di gas, soffocatisi nei modi più impensabili. Immagini reali e orribili di morte di chi, per paura di vivere una non vita, aveva scelto di non vivere. Mi piace pensare con Fabrizio De André che stanno attraversando «l’ultimo vecchio ponte» e che troveranno ad attenderli Chi dirà loro, baciandoli in fronte, «venite in Paradiso lì dove sono anch’io, perché non c’è l’Inferno nel mondo del Buon Dio».

Il carcere toglie la vita perché è senza vita. Non so se è vero che nel nostro paese non c’è la pena di morte se consideriamo che nelle carceri italiane muoiono ogni anno per suicidio più persone di quante ne vengono giustiziate nei paesi dove ancora c’è la pena di morte. Il “fine pena mai” è come se fosse un omicidio programmato dallo Stato ma che aspetta di essere realizzato dal suicidio. Come se fosse una pena di morte la cui esecuzione viene lasciata alla libera scelta dell’ergastolano, alla sua libera determinazione, perché così il nostro Stato nella sua ipocrisia può sentirsi un paese dove al suo popolo viene garantita sempre la libertà e il diritto alla vita.

Ipocrisia di un paese che si iscrive tra quelli che chiedono una moratoria per la pena di morte e nel contempo mantiene l’ergastolo che è una morte con una lunghissima pena. Una Legge perché renda responsabile lo Stato che la deve far rispettare, ed etica la politica che la vuole, deve essere una Legge in grado di far vivere e di viversi.

Mi vado sempre più convincendo che si arriverà a guardare alla pena torturale dell’ergastolo con lo stesso imbarazzo e la stessa perplessità con cui oggi si guarda all’applicazione della vecchia tortura. Sono però, purtroppo, convinto che per quanto molti già oggi riconoscano l’inumanità e l’arretratezza di una esecuzione di pena così superata qual è la condanna a vita in carcere, questa nostra società che crede di essere civile non sia ancora pronta a scegliere e applicare una soluzione cristiana al problema della pena.

Per avere la capacità di modificare la pena del carcere a vita introducendo una pena più razionale e più rispondente a Giustizia manca ancora alla nostra società una volontà più propensa al perdono, l’esperienza e la conoscenza per acquisire questa volontà, il coraggio per metterla in pratica. La classe dirigente politica invece di stimolare e guidare la società nella ricerca di questa volontà, finisce col subirne il condizionamento.

La sensibilità dello Stato è arrivata, bontà sua, al punto di decidere di cambiare la dicitura “fine pena mai”: ora sulla data di scarcerazione c’è scritto anno 9999. Che grande ipocrisia. Lo Stato ha tolto “fine pena mai” per non demoralizzare il detenuto con la condanna all’ergastolo, ma per non rischiare che quello possa uscire ha messo una data che sa molto di presa per il culo.

Penso che la libertà sia il più grande dono che abbiamo ricevuto dalla vita, e che nessuno, neanche lo Stato, debba avere il potere, e meno che mai il diritto, di negarla e toglierla per sempre, a nessuno, per nessun motivo. Sarebbe altrimenti una ben magra libertà e non il dono di Dio, per questo penso che Lui possa aiutarci a superare questa non compiuta idea di difesa e di supremo valore del bene della libertà, e rendere possibile il miracolo di una presa di consapevolezza piena della nostra coscienza sulla libertà, per questo sono fiducioso che prima o dopo anche questa nostra società riuscirà a difendere il suo bene più prezioso e ad abolire l’ergastolo.

È questa la speranza che canta il mio cuore quando vivo con questi miei compagni che hanno un “fine pena mai” e il cuore soffre per loro più del dovuto.

I detenuti per sempre, esseri umani come noi, non hanno la capacità di fermare la vita, hanno il potere di fermare il corpo, possono stare fermi, pazienti o impazienti, hanno il potere di stare immobili nelle loro celle. Vite fermate, prima che la vita le fermi. Non sono uccise e non si uccidono, ma stare così per sempre, per tutta la vita, è come morire. Si è morti senza morire.

Queste vite possono essere salvate e riportate in vita solo dall’amore, solo l’amore di una società rinnovata dalla coscienza da un Amore più grande può rianimarle, solo un miracolo dell’Amore può farlo, con la sua speranza di vita.

Nei giorni più difficili la fiducia sbiadisce e sommersa d’irrealtà perde di consistenza. Una sensazione intensa e impetuosa mi trascina nel flusso cupo del carcere e mi lascia stordito, anche se avverto sempre spiragli di lucidità nei meandri del mio cervello. I miei compagni detenuti ergastolani, “fine pena mai”, fine pena 9999, mi aiutano a sperare, e ad avere fiducia.

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