Crisi in Yemen: potrebbe finire come in Libia

Lo Yemen è un paese più instabile della Libia, prima della rivolta di Bengasi, e in caso di dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, al potere da quasi 33 anni, il futuro sarebbe tutt'altro che certo. Il paese è sull'orlo di una crisi energetica e idrica epocale e gli scontri tra manifestanti e polizia hanno già causato oltre 52 vittime

L’abbandono del campo presidenziale da parte di un crescente numero di importanti leader tribali, comandanti militari, ministri e diplomatici all’indomani degli agguati che hanno causato 52 vittime fra i manifestanti, venerdì scorso a Sanaa, non è l’unica notizia che sembra preludere a una svolta nella crisi politica che da gennaio imperversa nello Yemen.

Non meno significativa è la notizia che il ministro degli Esteri francese Alain Juppé ha invitato – primo fra gli esponenti di governo dei paesi occidentali – il presidente Ali Abdallah Saleh a dimettersi. Anche in questo caso, come in quello libico, l’intervento francese non sembra fare i conti con la sindrome dell’apprendista stregone. Lo Yemen è un paese estremamente complicato, più instabile di quanto fosse la Libia prima della rivolta di Bengasi, e in caso di dimissioni di Saleh, al potere da quasi 33 anni, la successione e la transizione sarebbero un’incognita.

Con 23 milioni di abitanti che possiedono privatamente 28 milioni di kalashnikov, lo Yemen ha visto sin dalla sua nascita (nel 1991 per l’unificazione di Yemen del Nord e Yemen del Sud) aumentare i fattori di stress e di crisi. Oggi il paese è sull’orlo di una crisi energetica e idrica epocale, essendo questione di pochi anni l’estinzione dei giacimenti che gli permettono l’autosufficienza petrolifera e l’esaurimento delle acque dolci, mentre il governo centrale è sfidato da tre ribellioni armate: quella degli sciiti zayditi nel nord al confine con l’Arabia Saudita, quella dei secessionisti di Aden (sud-ovest) e quella di Al Qaeda nella penisola arabica, che è ripiegata nello Yemen dall’Arabia Saudita all’inizio del 2009 ed è attiva sul territorio in almeno quattro regioni del paese dove si è unita ai jihadisti locali.

Quella contro Saleh è cominciata alla fine di gennaio come una protesta contro la corruzione, il sottosviluppo e per la democrazia, animata principalmente dagli studenti universitari. Gradualmente si sono allineati a loro i soggetti più importanti della precaria equazione politica yemenita: la più potente delle confederazioni tribali, quella degli Hashed da sempre sostenitori del governo, ha cambiato campo il 21 marzo e chiede per bocca del suo presidente le dimissioni di Saleh; fra lunedì e martedì quattro alti ufficiali dell’esercito, fra i quali il più importante del paese, il generale Ali Mohsin al-Ahmar, sono passati dalla parte dei manifestanti; lo stesso dicasi di alcuni ministri (Saleh si è affrettato a sciogliere il governo per prevenire le defezioni), del rappresentante dello Yemen presso la Lega Araba e di alcuni ambasciatori.

Saleh aveva promesso di non ripresentarsi alla scadenza del suo mandato nel 2012, ma da settimane gli oppositori chiedono le sue dimissioni immediate. In tal caso il nome più accreditato per la transizione sarebbe quello del generale al-Ahmar. Ma la Guardia presidenziale, comandata da uno dei figli di Saleh, continua ad essere fedele al presidente. Gli oppositori yemeniti sperano in uno scenario egiziano, ma potrebbero ritrovarsi con quello libico.

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